«Vino?» domandò Falcón. «Abbiamo bisogno di vino.»
«Ti ubriacherai e non ce la farai a…»
I loro sguardi si incontrarono al di sopra della tavola e cose troppo complicate per poterne parlare furono comprese all’istante. Falcón lasciò cadere forchetta e coltello, Consuelo si alzò. Si baciarono, lei gli infilò le mani sotto la camicia e ogni sorta di pensieri riguardanti l’igiene personale si fecero strada nel cervello di Falcón. Le tirò giù la lampo, fece scorrere un dito nel solco della colonna vertebrale e non incontrò nessun indumento. Le mani di lei gli trovarono la schiena. L’adrenalina gli corse furiosa nell’organismo.
Controllati, pensò, o non arriverai nemmeno a toglierti i pantaloni.
Lo salvò Consuelo.
«Non qui», gli disse, «non voglio che la puta americana venga a ficcare il naso con la sua macchina fotografica.»
Lo condusse su per le scale, tenendolo per un polso.
«Sai, non lo faccio da tanto tempo», le disse Falcón.
«Anch’io. Forse dovremmo accendere l’aria condizionata.»
15
Sabato 27 luglio 2002
A letto Consuelo Jiménez era come Falcón aveva pensato: eccitante, esigente, implacabile. In uno dei molti intervalli per una sigaretta, gli aveva rivelato che quella era la prima volta che faceva sesso da quando era stata con Basilio Lucena la notte in cui suo marito, Raúl, era stato assassinato. Da quel momento si era concentrata sui figli.
«Ho fatto anche il test per l’AIDS», aveva detto, «dopo aver scoperto la promiscuità di Basilio. Non ho avuto una grande fortuna, sai…»
Falcón si era girato verso di lei e aveva incontrato i suoi occhi scuri.
«Era negativo.»
Avevano parlato in un modo che aveva affascinato Falcón, il quale non ricordava di essere stato mai sdraiato su un letto con una donna a parlare di tutto e di niente. Perfino nelle due relazioni importanti della sua vita, stare a letto non era mai stato per lui un’occasione per essere sincero, semmai per interpretare una parte di cui non conosceva le battute, che non gli si confaceva.
Si erano svegliati presto e sudaticci. Consuelo lo aveva accompagnato nella doccia e lo aveva insaponato, strusciandoglisi contro tanto che Falcón aveva dovuto sostenersi alla parete di vetro. La donna aveva approfittato della sua erezione, gettandoglisi addosso con una foga tale da far tremare tutta la struttura. Si erano vestiti guardandosi a vicenda.
Ora, in piedi nella cucina, con un caffè e una fetta di pane tostato spruzzato di olio d’oliva, Falcón si sentiva le gambe nuove di zecca, e non avvertiva nemmeno una sia pur minima traccia dei postumi della bevuta, malgrado le tre bottiglie di Basque rioja vuote accanto alla pattumiera. Continuava a guardarla muto mentre grosse questioni inquietanti gli mulinavano nella testa.
«Mi piacerebbe rivederti», disse.
«Sono contenta che abbiamo risolto questa faccenda», affermò Consuelo. «Da quando sono stati inventati i telefoni cellulari noi donne non dobbiamo più passare le giornate in attesa: ora sappiamo con certezza che lui non ha chiamato.»
«Dovrai dirmi come posso inserirmi nella tua vita», disse Falcón.
«La tua è più complicata della mia.»
«Tu hai figli.»
«Stanno per andare in vacanza.»
«Tu li seguirai.»
«Dopo ferragosto.»
«In questo momento non ho nessun controllo sul mio tempo, se succede qualcosa io devo essere immediatamente disponibile.»
«Allora chiamami quando sarai più libero… A meno che tu non sia sempre preso dai tuoi avvocati per la questione di Manuela, per avere la scusa di non cenare con me.»
Falcón sorrise. Si stava innamorando del suo senso dell’umorismo, della sua schiettezza. Le parlò della sua idea di vendere la casa a Manuela e di ciò che gli aveva consigliato Isabel Cano.
«Segui il suo consiglio», suggerì Consuelo. «Il meglio che puoi aspettarti da Manuela è il rispetto e il rispetto lo si ottiene trattando con decisione. Te lo dico una volta sola, Javier. Puoi darmi retta o ignorarmi. Fai fare una valutazione della casa, offrile di comprarla direttamente da te senza pagare l’agenzia, e dalle una settimana per decidere. Poi mettila in vendita.»
Falcón annuì. Di questo aveva bisogno nella sua vita, di semplificazione. L’attirò a sé e la baciò attraverso il sapore del caffè e del pane tostato.
Erano le nove e mezzo. Chiamò Ramírez sul cellulare.
«Ha fissato l’incontro con Carlos Vásquez per stamani?» gli domandò.
«E il mandato del Juez Calderón?»
«Non sono riuscito a mettermi in contatto con lui», rispose Falcón. «E ho controllato nel suo ufficio ieri sera.»
«Allora dovremo cercare di far parlare Vásquez lo stesso. La chiamo appena avrò fissato l’appuntamento. Ho messo in rete nazionale e internazionale la faccia di Sergei.»
Falcón chiamò Alicia Aguado per dirle che sarebbe passato in tarda mattinata per accompagnarla a Santa Clara da Pablo Ortega. Mentre tornava in città gli telefonò Ramírez: Vásquez sarebbe rimasto in studio fino a mezzogiorno. Falcón prese nota dell’indirizzo e disse che sarebbe stato da lui entro un quarto d’ora.
Una telefonata di Cristina Ferrera.
«Nadia è sparita», lo informò. «Due tizi sono passati di là ieri sera, l’hanno fatta salire in macchina e non l’hanno più riportata indietro.»
«È già successo altre volte?»
«Verso le cinque o le sei del mattino è sempre di ritorno all’appartamento. Che cosa devo fare?»
«A meno che non ci sia qualcuno disposto a fornire una descrizione particolareggiata dei due individui, e ne dubito, non si può fare niente», le disse Falcón.
Ramírez lo stava aspettando all’ingresso dell’Edificio Viapol in un’anonima zona della città al limitare di San Bernardo, dove Carlos Vásquez aveva il suo studio. In ascensore Ramírez continuava a fissare il profilo di Falcón.
«Che cosa ha da guardare, José Luis?»
«Lei», rispose Ramírez sorridendo. «Glielo ho sentito nella voce e ora la vedo con indosso esattamente quello che aveva ieri, perciò è confermato.»
«Confermato che cosa?» domandò Falcón, pensando di essere in grado di affrontare la situazione con spavalderia.
«Sono io l’esperto», gli ricordò Ramírez, battendosi le grosse dita sul petto, quasi offeso dalla sfrontatezza del suo capo. «Ho capito, perfino al telefono, che finalmente la siccità era finita.»
«Quale siccità?»
«È la verità… o mi sto sbagliando?» rise Ramírez. «Chi è?»
«Non so di chi stia parlando.»
La faccia larga, scura, color mogano dell’Inspector occupò tutta la visuale di Falcón, la riga nei capelli neri e impomatati disegnata nettamente.
«Non è l’americana, vero? Ne ho sentito parlare da Felipe e da Jorge, dicono che è il tipo che ti strizza come un tubetto di dentifricio.»
«Credo che dovremmo concentrarci su ciò che diremo a Carlos Vásquez, José Luis.»
«No, no, no, non è quella! L’americana è l’ultima conquista del Juez Calderón.»
«Questa dove l’ha sentita? Santo cielo, ha appena annunciato il suo fidanzamento!»
Ramírez rise, una specie di latrato senza allegria. L’ascensore si arrestò. Entrando nello studio di Vásquez si trovarono davanti un grande quadro di un paesaggio cittadino astratto, vaghe luci e sagome di edifici nella nebbia. Falcón pensò che a venderglielo potesse esser stato Ramón Salgado.
«Condurrò io la discussione», disse Falcón, «non voglio che lei lo forzi in nessun modo, perché so cose che lei non sa ancora, José Luis. È importante.»
«E io so cose che lei non immagina nemmeno.»
Falcón avrebbe voluto sapere, ma uno dei praticanti di Vásquez li aveva già raggiunti. Vennero introdotti nell’ufficio del capo, che dava sul retro degli edifici di Calle Balbino Marrón. L’avvocato li pregò di accomodarsi mentre finiva di leggere un documento. Alla parete alle sue spalle, su una grande pianta di Siviglia, erano contrassegnati i cantieri con riquadri di colori diversi. Vásquez gettò il documento tra quelli in uscita e si allungò sulla poltrona. Falcón gli presentò Ramírez, che a Vásquez fu subito antipatico.