«D’accordo, d’accordo, avete scoperto la pista russa. Ma è tutto qui», ribatté Vásquez. «Se volete sapere quali fossero i rapporti tra loro io non posso esservi di aiuto, perché non so nulla. Posso dirvi soltanto… chiedetelo ai russi, se riuscirete a trovarli.»
«Lei come si mette in contatto con loro?»
«Io non mi metto in contatto. Ho redatto i contratti che mi sono stati restituiti dalla Vega Construcciones con firma e timbro. E nemmeno nei loro uffici troverete qualcuno che ci abbia mai parlato.»
«Devono pur avere numeri di telefono, indirizzi, conti bancari, no?» insistette Ramírez.
«Siete voi a pensare che appartengano alla mafia di Mosca.»
«Noi sappiamo che è così.»
«Be’, può darsi. E può darsi che abbiano avuto una buona ragione per ammazzare un uomo che li stava aiutando nei loro affari, ma io questa buona ragione non la conosco», affermò Vásquez. «E dubito che la scoprirete mai, se davvero esiste e se davvero lo hanno ucciso loro. Quella gente sta bene attenta a non farsi scoprire. Come ho detto, io non li ho mai visti. Perciò… Inspector Jefe, Inspector… ora sta a voi, ne sapete tanto quanto me. E per stamani credo che abbiamo finito. Se volete scusarmi…»
In ascensore Ramírez fece tintinnare le monete che aveva in tasca. Falcón gli disse di incaricare Cristina Ferrera di cercare i precedenti proprietari dei due lotti venduti ai russi.
«Ecco il lavoro del poliziotto», commentò Ramírez, digitando il numero di Cristina Ferrera sul cellulare, «si pensa di averli inchiodati e un attimo dopo scompaiono al di là dell’orizzonte.»
«Quali sono le cose che lei sa e che io non immagino nemmeno?» domandò Falcón, ricordandosi della precedente osservazione di Ramírez.
«Anche se trovassimo Sergei e ammesso che lui avesse visto qualcosa… che potrebbe dirci?» disse Ramírez, rimpiangendo a quel punto di essersi lasciato andare.
«José Luis, stavamo parlando del Juez Calderón salendo in ascensore e lei ha detto che sapeva qualcosa che io non avrei potuto mai immaginare.»
«Non era nulla… ho parlato tanto per parlare.»
«Non mi era parso. Mi era parso che si trattasse di una cosa personale che riguardava il Juez Calderón e me.»
«Non è niente, lasci perdere.»
Cristina Ferrera rispose al telefono e Ramírez le riferì il messaggio di Falcón sui terreni.
«Me lo dica, José Luis, me lo dica», insistette Falcón. «Non sono più uno psicopatico, non mi butterò sotto una macchina, se…»
«E va bene», disse Ramírez mentre l’ascensore si fermava al pianterreno. «Le farò una domanda e lei veda se può rispondermi.»
Uscirono dall’edificio e si fermarono l’uno davanti all’altro sulla strada dall’asfalto bollente.
«Quando hanno cominciato a vedersi il Juez Calderón e Inés?»
16
Sabato 27 luglio 2002
Tornato a casa, nella frescura della camera da letto, Falcón si tolse gli abiti che lo avevano tradito davanti a Ramírez e, sotto la doccia, fissando il vetro appannato, ripensò al modo in cui Isabel Cano gli aveva parlato di Inés, definendola un’innocentina. Isabel sapeva. Ripensò alle parole dell’Inspector Jefe Montes a proposito di Calderón: «A lei il giudice è simpatico, non lo avrei mai detto». Anche Montes sapeva. Felipe e Jorge, Pérez, Serrano e Baena. Tutto l’Edificio de los Juzgados e il Palacio de Justicia. Sapevano tutti. Ecco che cosa accade quando ci si seppellisce in se stessi: non si nota niente, non si nota nemmeno che qualcuno si scopa tua moglie sotto il tuo naso. Scosse la testa, ricordando gli orribili calcoli che lo psicologo della polizia gli aveva fatto fare. Quando si è staccato da sua moglie? Quando ha fatto l’amore con lei l’ultima volta? Se ci siamo separati in giugno, deve essere stato in maggio. Maggio 2000.
Si vestì e uscì di casa. Aveva bisogno di un altro caffè prima di passare a prendere Alicia Aguado. Comprò El País e al Café San Bernardo ordinò un café solo. Cristina Ferrera lo chiamò dagli uffici della Vega Construcciones per dargli i dati del precedente proprietario del terreno venduto ai russi. Sfortunatamente era in vacanza in Sud America e non sarebbe rientrato prima di settembre. Gli disse anche che il contabile era riuscito a entrare nella rubrica sul computer di Vega e aveva trovato il numero di telefono dei russi: per tutti e due un solo numero di Vilamoura, nell’Algarve, in Portogallo.
Chiuse il telefonino e cercò di leggere il giornale, ma a quel punto, invece di provare umiliazione per quanto aveva saputo da Ramírez, nella mente gli scorsero le immagini della notte precedente, Consuelo a cavalcioni su di lui, il piccolo triangolo scuro incombente, lo sguardo fermo di lei mentre lo introduceva dentro di sé, le sue parole: «Voglio vederti dentro di me». Diavolo. Si sentiva la gola stretta al punto da non poter deglutire, la vista annebbiata confondeva i caratteri di stampa e dovette fare uno sforzo per riscuotersi e tornare alla vita reale, al caffè, alla gente seduta intorno a lui.
Per Consuelo il sesso era importante, ci sapeva fare. Quando arrivava all’orgasmo emetteva un gemito profondo, felino, un grido soffocato che faceva pensare a un corridore nel momento in cui taglia il traguardo. Le piaceva stare sopra e quando aveva finito restava inginocchiata, ansimando, i capelli sulla faccia e in parte appiccicati alle guance, incurante di tutto, i seni che si scuotevano a ogni respiro. Falcón aveva sempre pensato che il sesso con Inés fosse bello, aveva creduto che a letto insieme loro due fossero il massimo, ma ora si rendeva conto che Inés non si era mai lasciata andare completamente, si era sempre in certo modo trattenuta, senza mai raggiungere il lato animalesco della sua persona, come se qualcosa nella sua testa le avesse detto che non stava bene comportarsi così.
Ma era poi la verità? O lo si pensava quando si era attratti da un altro partner? Forse ci si persuadeva che l’ultimo partner non era poi così eccezionale? Forse era ciò che aveva provato anche Calderón, forse aveva pensato che con Inés non ci sarebbe stata quella differenza di cui aveva parlato Isabel Cano: Inés è bella, intelligente e attraente, ma Calderón sa come vanno a finire certe cose. E in quell’esatto momento, mentre il cellulare cominciava a vibrare nella tasca, Falcón si rese conto che era finita, che non era affar suo, non gliene importava più nulla, nulla avrebbe potuto interessargli meno di Inés o di Calderón o di quel che sarebbe stato delle loro misere vite. Qualcosa si era dissolto dentro di lui, ebbe la sensazione fisica di un distacco, di una tensione che si allentava definitivamente, di lacci recisi che volavano via sventolando nella notte. Sorrise compiaciuto e contemplò intorno a sé il magnifico disinteresse del bar e infine rispose alla telefonata di Alicia Aguado, che gli chiedeva dove diavolo fosse finito.
Dal momento che quella non era una seduta, si salutarono con un bacio e immediatamente Alicia notò in lui una differenza.
«È contento», disse.
«Alcune cose sono andate al loro posto.»
«Ha fatto sesso.»
«Non credo proprio che sia in grado di capirlo», replicò Falcón. «E comunque questa non è una seduta.»
Si recarono a Santa Clara per l’incontro con Pablo Ortega. Nessuno venne ad aprire, ma Falcón notò che il portone di legno era socchiuso. Falcón aveva avvertito Alicia Aguado a proposito del fetore della fossa biologica, soffocante al punto da farli tossire entrambi. Alicia si attaccò al braccio di Falcón per girare intorno alla casa fino all’ingresso della cucina. Nessun segno di Ortega, eppure erano già le undici passate.
«Probabilmente sta facendo passeggiare i cani», disse Falcón, «sediamoci all’ombra accanto alla piscina e aspettiamolo là.»
«Non so come faccia a vivere con quel fetore.»