«Non è così terribile, dentro non si sente, ha fatto sigillare quella parte della casa.»
«Dover attraversare quel tratto tutti i giorni mi spingerebbe al suicidio.»
«Be’, non si può dire che Pablo Ortega sia un uomo felice.»
La fece sedere a un tavolino sul bordo della piscina prima di dirigersi verso l’estremità della vasca dove l’acqua era più profonda, fermandosi sul piccolo trampolino e guardando in basso, dove gli era parso di vedere un sacco, sul fondo. Trovò un palo vicino alla piscina, con una reticella a un’estremità e un gancio sull’altra.
«Che cosa sta facendo, Javier?» domandò Alicia, preoccupata da quell’attività muta.
«C’è un sacco in fondo alla piscina, parrebbe un vecchio contenitore di fertilizzanti.»
Il sacco era pesante, tanto che dovette spingerlo con il palo fino alla parete e poi trascinarlo sul fondo e tirarlo su dove l’acqua era più bassa. Doveva pesare una trentina di chili. Falcón sciolse il nodo della corda e sussultò davanti al contenuto orripilante.
«Che c’è?» esclamò Alicia, alzandosi, disorientata dall’apparente panico di lui.
«Sono Pavarotti e Callas, i cani di Ortega. Non mi sembra un buon segno.»
«Qualcuno gli ha affogato i cani?»
«No. Credo che li abbia affogati lui.»
Falcón le disse di rimanere seduta dov’era, poi si diresse alla porta della cucina, chiusa, ma non a chiave. L’aprì e fu investito dal fetore disgustoso del pozzo nero. Sul tavolo due bottiglie vuote di Torre Muga. Entrò in soggiorno, dove trovò un’altra bottiglia di vino vuota e la scatola di Cohiba che Ortega gli aveva offerto la sera prima. Nessun bicchiere. Là il tanfo di liquame era ancora più potente e Falcón si accorse che la porta sigillata che conduceva all’altra ala della casa era stata aperta, così come quella in fondo al corridoio, spalancata sulla stanza sopra il pozzo nero.
Sul pavimento del corridoio una bottiglietta di Nembutal senza tappo. Nella stanza tavole di legno e rivestimenti di plastica erano stati gettati contro la parete nella quale si apriva una grossa crepa dovuta al cedimento del terreno. Nel pavimento era stato aperto un largo foro per permettere agli operai di ispezionare i danni. Per terra, sul cemento grezzo e sulle piastrelle, erano sparsi frammenti del bicchiere di Ortega, oltre a un mozzicone di sigaro. Dalla superficie del liquame affiorava la pianta giallastra del piede destro di Pablo Ortega. Falcón chiamò la Jefatura con il cellulare, specificando che fosse informato il Juez Calderón in quanto quella morte era forse collegata al caso Vega. Domandò anche di Cristina Ferrera, ma dette istruzioni di lasciare in pace Ramírez.
Uscì dalla stanza e ripercorse il corridoio fino alla stanza padronale e là, sulla sovraccoperta color vinaccia intatta erano posate due lettere, una indirizzata a Javier Falcón e l’altra a Sebastián Ortega. Le lasciò dove si trovavano e tornò da Alicia Aguado, molto spaventata e ancora seduta vicino alla piscina. Le disse che a quanto pareva Pablo Ortega si era suicidato.
«Non posso crederci», le disse, «l’ho visto ieri sera e, sì, era quasi ubriaco, ma affabile, cortesissimo, generoso. Aveva perfino detto che oggi, dopo l’incontro, mi avrebbe mostrato la sua collezione.»
«Aveva già deciso», disse Alicia, che si teneva stretta come se stesse gelando, a 42 gradi all’ombra.
«Accidenti a me», esclamò Falcón parlando fra sé, «non posso fare a meno di sentirmi responsabile, sono stato io a smuovere tutto questo e…»
«Nessuno è responsabile del suicidio di un altro», affermò Alicia, «quell’uomo aveva una sua storia che non poteva essere cambiata, e nemmeno smossa, parlando per un paio d’ore con Javier Falcón.»
«Sì, certo, lo so. Immagino di aver voluto dire che ho fatto precipitare le cose, insistendo troppo con lui.»
«Intende dire che non gli ha parlato solo di Sebastián?»
«Pensavo che potesse darmi qualche informazione utile per le indagini.»
«Era un indagato?»
«No, non esattamente. Ma capivo che le mie domande lo innervosivano, lo turbavano non so per quale ragione, sia che avessero come argomento il figlio sia Rafael Vega.»
«Solo per interesse professionale, dal punto di vista psicologico: come si è ucciso?»
«Si è ubriacato, ha preso una certa quantità di pillole per dormire e si è annegato nel pozzo nero.»
«Ha programmato tutto con cura, non è così?» osservò Alicia. «Affogare i cani…»
«Ieri sera gli avevo chiesto dei cani e mi aveva detto che stavano dormendo. Probabilmente li aveva già ammazzati.»
«Ha lasciato una lettera?»
«Due: una a me e una al figlio. Non le ho toccate, aspetto che arrivi il Juez de Guardia.»
«Sapeva che sarebbe stato lei la prima persona a entrare qui stamani», disse Alicia, «nessuna brutta sorpresa per nessuno, eccettuati gli addetti ai lavori, il cancello e la porta lasciati aperti. Ha pensato a tutto, fino all’ultimo particolare del pozzo nero.»
«Che intende dire?»
«Non aveva detto che quella parte della casa era stata sigillata?»
«Sì.»
«Perciò si è preso la briga di distruggere il rivestimento sigillante, perché era importante per lui dal punto di vista psicologico affogarsi nella merda… nella sua merda. Sono sicura che sarebbero bastati l’alcol e le pillole.»
«L’alcol può indurre vomito», le fece notare Falcón.
«D’accordo. Voleva proprio essere sicuro… ma avrebbe potuto usare la piscina, meno nascosta, è vero, ma per i cani l’ha utilizzata.»
«Cerchi di alleviare il mio senso di colpa, Alicia, mi dia una teoria», la pregò Falcón.
«Come sa, c’era stato un crescendo negli eventi che lo riguardavano, ancor prima che lei lo interrogasse nel corso delle indagini su Rafael Vega», spiegò Alicia. «Suo figlio era stato rinchiuso in un carcere dopo un processo molto pubblicizzato e per un crimine odioso, lui stesso era stato messo al bando dalla comunità del suo quartiere al punto da dover lasciare il suo appartamento; e non tutto è stato chiarito per quanto lo riguarda. Si era trasferito qui, un posto che in apparenza era molto adatto a lui, una città giardino abitata da gente danarosa, pace e tranquillità. Ma le cose non erano andate come aveva previsto, si era sentito spaesato e aveva rimpianto la vita del barrio, la casa che aveva comprato gli aveva creato un problema sgradevolissimo e lo aveva allontanato ulteriormente dagli altri. Quello che per noi probabilmente sarebbe stato un inconveniente irritante e costoso, per Pablo Ortega poteva avere assunto un’enorme importanza. Poi il suo vicino era morto…»
«Mi aveva chiesto se Vega si fosse suicidato.»
«Perciò l’idea del suicidio era già nella sua mente. E abbiamo dimenticato di dire che suo figlio non voleva vederlo… un altro fattore di isolamento. Poi Javier Falcón è entrato in scena, ha intuito che giustizia forse non era stata fatta nel caso di Sebastián e si è offerto di aiutarlo. Come sa, non si può aiutare nessuno senza smuovere le cose e chissà che cosa è affiorato alla mente di Ortega. Qualsiasi cosa fosse, comunque, lui non voleva affrontarla, non pensava che valesse la pena di restare vivi per affrontarla. Così, non solo non riporta alla superficie la cosa difficile da affrontare, ma in effetti fa affondare se stesso, affoga i ricordi nella sua propria sporcizia. I suoi cani, creature tenere e innocenti, non ricevono lo stesso trattamento.»
Falcón scosse la testa sgomento.
«Javier, lei ha detto che lo aveva interrogato a proposito di suo figlio, ma anche dell’indagine in corso. Di che cosa lo sospettava?»
«Preferisco non parlarne, per ora. È meglio che lei si accosti ai fatti senza preconcetti… ammesso che voglia farsi coinvolgere. Può disinteressarsene, naturalmente.»
«Sono già coinvolta», ribatté Alicia Aguado. «Vorrei sapere che cosa ha scritto nelle lettere. E potrebbe essere interessante vedere la sua collezione.»