Una macchina della polizia si arrestò davanti alla casa.
«Prima c’è del lavoro da fare», disse Falcón, «ma non credo che ci vorrà molto.»
Dietro l’auto della polizia si era fermata un’ambulanza e qualche minuto dopo comparvero Felipe e Jorge, seguiti dal Juez de Guardia, Juan Romero. Dopo una breve discussione sul possibile collegamento del suicidio di Ortega con il caso Vega, Romero ricevette la telefonata di Calderón, al quale riferì il rapporto verbale di Falcón. Fu deciso di trattare i casi separatamente. Cristina Ferrera giunse in tempo per apprendere la decisione.
Falcón li guidò sulla scena del crimine, passando per la piscina con i cani morti, e proseguendo nell’interno della casa. Felipe scattò le foto mentre Jorge esaminava i cani e grattava via i resti di carne fra i loro denti. Cristina Ferrera controllò la segreteria telefonica e chiese alla compagnia telefonica un tabulato delle chiamate in entrata e in uscita, poi si mise alla ricerca di un eventuale cellulare.
I barellieri stabilirono che al corpo di Ortega erano state fissate delle zavorre: per tirarlo su sarebbe stato necessario un verricello. Uscirono per procurarlo e nel frattempo Jorge e Felipe raccolsero tutti gli elementi di prova prima di spostarsi nella camera da letto. Arrivò il Médico Forense che rimase a parlare con Alicia Aguado accanto alla piscina, in attesa di poter esaminare il cadavere.
Felipe porse a Falcón le lettere chiuse nelle buste di plastica. Gli uomini dell’ambulanza scrostarono il soffitto finché non ebbero trovato una trave di cemento armato, dopodiché cominciarono a usare il trapano. Portandosi le lettere in soggiorno, Falcón mandò Cristina Ferrera, che non aveva trovato nessun telefono cellulare, a parlare con i vicini per accertare quali fossero stati i movimenti di Ortega nelle ultime ventiquattro ore.
RISERVATO
27 luglio 2002
Caro Javier,
credo che a quest’ora avrà capito che ho scelto lei e mi scuso se questo le ha creato un disturbo. Oltre a essere del mestiere, come le ho detto, lei mi è simpatico e voglio che questa, l’ultima scena dell’ultimo atto, finisca al sicuro nelle sue mani.
Nel caso di qualche eventuale dubbio o se uno scassinatore inopportuno dovesse capitare lì e mettere a soqquadro la mia tragedia, voglio dichiarare in modo inequivocabile che mi sono tolto la vita. Non è stata una decisione improvvisa e certamente non è stata causata da nessun recente sviluppo della mia situazione, ma è frutto di una serie di eventi. Sono giunto in fondo alla strada e ho scoperto che era una strada senza uscita, senza nessuna possibilità di ritornare indietro e di fare tutto ciò che avrei dovuto fare. Era una strada chiusa che potevo lasciare in un solo modo e io ho scelto quel modo a occhi ben aperti, con animo tranquillo, se non con la coscienza tranquilla.
Le mie ragioni per togliermi la vita sono le uniche ragioni che può avere un suicida. Sono un debole e un egoista. Ho mancato verso mio figlio. È stato questo il marchio distintivo di tutti i miei rapporti, familiari e privati, e forse è stato così perché io sono consumato dalla vanità. E il prezzo della vanità è la solitudine. Mio figlio è in carcere. La mia famiglia si è stancata di me. La mia comunità mi ha scacciato. Il mio ambiente professionale mi sfugge. La vanità, nel caso non lo sappia, richiede un pubblico. La vita dentro la mia bolla di sapone mi è diventata intollerabile, non ho nessuno per cui recitare e perciò non sono nessuno.
Probabilmente le sembrerà assurdo che qualcuno della mia notorietà e nella mia situazione di benessere, abbia scelto questa fine. Sento che sto per lanciarmi in una spiegazione lunga e confusa, ma sarebbe soltanto il Torre Muga a parlare. Mi scuso di nuovo per il disturbo, Javier. Per favore, dia l’altra mia lettera a mio figlio, Sebastián. Con lui spero che riesca dove io ho miseramente fallito.
Con un abrazo,
P.S. Non le ho mai mostrato la mia collezione. Per favore, la guardi pure quando le fa comodo.
P.P.S. Per cortesia informi mio fratello Ignacio. Troverà il suo numero nella rubrica sul tavolo di cucina.
Falcón rilesse la lettera più volte finché non fu interrotto dal rumore del verricello elettrico. In piedi sulla soglia, rimase a guardare mentre il cadavere gonfio e sporco di Ortega emergeva dal foro nel pavimento, una lastra di pietra fissata sul petto con il nastro isolante e un’altra infilata nei pantaloni corti. Fece venire il Médico Forense e disse a Felipe di scattare altre fotografie, poi andò a sedersi accanto ad Alicia Aguado e le lesse la lettera di Ortega.
«Non credo che fosse ubriaco quando l’ha scritta», commentò Alicia.
«C’erano tre bottiglie vuote di Muga.»
«Non erano dentro di lui quando ha scritto questa lettera. Ha dichiarato la sua responsabilità, ma è stato molto attento a non ammettere nulla. Il fatto che neghi che il suo suicidio abbia qualcosa a che fare con ‘i recenti sviluppi’ mi pare importante. Era davvero in una fase di negazione. Non poteva affrontare ciò che secondo lui sarebbe emerso da quegli sviluppi.»
«I soli sviluppi recenti di cui io sia a conoscenza sono la morte di Rafael Vega e la mia offerta di aiuto per suo figlio.»
Tornò Cristina Ferrera, che aveva parlato con i pochi vicini che era riuscita a trovare. La mattina precedente Ortega aveva portato fuori i cani due volte, alle undici del mattino e alle cinque del pomeriggio, era uscito in macchina, restando fuori tutte e due le volte per circa un’ora e mezzo.
«Lei porterebbe fuori i cani se stesse per affogarli?» le domandò Falcón.
«Sembra che sia stata una sua abitudine», rispose Cristina Ferrera, «anche il vicino li portava fuori alla stessa ora. E si dà da mangiare e si fa fare esercizio fisico perfino ai condannati a morte.»
«Uccidere i cani ha a che fare con il suo egoismo dichiarato e con la sua vanità, i cani erano parte di lui, solo lui sapeva amarli», spiegò Alicia Aguado. «Lo ha visto ieri mattina, prima che uscisse in macchina, Javier. Di che cosa avete parlato?»
«Mi interessava il suo rapporto con Rafael Vega, come lo avesse conosciuto, se fosse stato tramite Raúl Jiménez e se avesse mai frequentato qualche loro conoscente. Avevo una fotografia di lui insieme ad altre persone a una specie di festa e mi è parso che ne fosse rimasto turbato. Gli ho parlato anche di suo figlio. Poi me ne sono andato… No, non è stato proprio così, prima mi aveva parlato di un suo sogno ricorrente. E dopo che me ne ero andato, mi è venuta in mente una domanda da fargli e sono tornato indietro, ma l’ho visto inginocchiato sul prato. E piangeva.»
Alicia Aguado gli chiese di raccontargli il sogno e Falcón le spiegò che Ortega vedeva se stesso in un campo, con le mani doloranti.
«Ho letto il suo rapporto sul vostro primo incontro», intervenne Cristina Ferrera. «Era molto diverso allora.»
«Sì, era più attore», ammise Falcón. «In quel colloquio aveva recitato quasi sempre. In seguito si era fatto più serio. La tensione aumentava.»
«Aveva l’impressione che lei lo stesse accusando. Di che cosa, Javier?» gli domandò Alicia.
«Non voglio parlarne finché non avrò le idee più chiare. Devo lavorarci su ancora molto», rispose Falcón.
Jorge chiamò Falcón a consulto sulla scena del crimine. Erano tutti convinti che si fosse trattato di un suicidio, non avevano trovato nessun elemento che li inducesse a credere a qualcosa di diverso. Le impronte di Ortega erano dappertutto. Juan Romero sollecitò l’opinione del Médico Forense.
«Ora della morte le tre circa, la causa annegamento. Sulla fronte c’è un unico segno probabilmente dovuto alla caduta nel pozzo. Il mio verdetto pre-autopsia è che si sia suicidato.»
Il Juez Romero firmò il levantamiento del cadáver. Falcón gli disse che avrebbe informato il parente più prossimo come aveva richiesto il deceduto. Felipe e Jorge se ne andarono e Falcón, prima di lasciarla andare, disse a Cristina Ferrera di occuparsi delle telefonate il lunedì seguente, poi si recò in cucina, trovò la rubrica e chiamò il cellulare di Ignacio Ortega, ma lo trovò spento. Disse a Romero che avrebbero informato la stampa della morte di Pablo Ortega solo dopo aver parlato con il fratello.