Выбрать главу

Dopo la brutalità del caldo all’aperto, i controlli di sicurezza nei corridoi freschi e spogli furono un sollievo. Man mano che si avvicinavano alla zona dove vivevano i detenuti, l’odore acre degli uomini rinchiusi si faceva più acuto. L’aria vibrava di menti annoiate, intente a far passare il tempo; si respirava sempre la stessa mistura di frustrazioni imbottigliate, greve di ormoni. Furono condotti in una stanza con una sola finestra in alto, chiusa da inferriate; unici arredi un tavolo e quattro sedie. Sedettero. Dieci minuti dopo entrò lo psicologo di turno nel carcere e si presentò.

Conosceva Sebastián Ortega e lo riteneva innocuo. Spiegò che il detenuto non era del tutto chiuso nel mutismo, ma raramente diceva qualcosa in più dello stretto indispensabile. Sarebbe presto arrivato un infermiere, disse, ed erano pronti a qualsiasi eventualità, violenza compresa, anche se non pensavano che si sarebbe arrivati a tanto.

Due guardie scortarono Sebastián Ortega e lo fecero sedere al tavolo. Falcón non aveva mai visto una sua fotografia ed era quindi impreparato alla bellezza del giovane. Non possedeva nessun tratto fisico del padre, era snello, alto un metro e ottantacinque, aveva i capelli biondi e occhi castani, zigomi alti, delicati, che non parevano poter sopravvivere a lungo in un carcere. Muovendosi con movimenti lenti e aggraziati, sedette appoggiando le mani dalle lunghe dita di artista sulla superficie del tavolo e pulendosi con l’unghia dell’indice quelle dell’altra, con calma. Lo psicologo del carcere fece le presentazioni. Sebastián Ortega non distolse mai lo sguardo da Alicia Aguado e quando lo psicologo ebbe finito, si sporse leggermente in avanti.

«Mi scusi», disse, con una voce dal timbro quasi femminile, «lei è cieca?»

«Sì.»

«Ecco, quella è una menomazione che non mi dispiacerebbe.»

«Perché?»

«Crediamo troppo a quello che ci dicono i nostri occhi e così facendo causiamo a noi stessi enormi delusioni.»

Lo psicologo del carcere, in piedi accanto al tavolo, gli spiegò che Falcón aveva una notizia da dargli. Sebastián non commentò, ma si allungò sulla sedia, lasciando le mani irrequiete sul tavolo.

«Mi dispiace, Sebastián, ma devo dirti che tuo padre è morto stanotte alle tre. Si è tolto la vita», disse Falcón.

Nessuna reazione. Passò più di un minuto e il bel viso rimase impassibile.

«Hai sentito quello che ha detto l’Inspector Jefe?» domandò lo psicologo.

Un unico cenno di assenso, poi le palpebre si abbassarono. I funzionari della prigione si guardarono l’un l’altro.

«Hai qualche domanda da fare all’Inspector Jefe?» gli domandò lo psicologo.

Sebastián trattenne il fiato e scosse la testa.

«Ti ha scritto una lettera», riprese Falcón, posandola sul tavolo.

Una mano di Sebastián scattò, interrompendo il suo armeggiare inconsapevole, e buttò a terra la lettera. Mentre la busta scivolava sulle piastrelle, nel corpo del ragazzo la tensione crebbe, i tendini e i muscoli si disegnarono sui polsi e sugli avambracci, le mani si aggrapparono al bordo del tavolo come per evitare una caduta all’indietro e il tavolo fu scosso dallo spasmo muscolare. La faccia si contorse e con un singhiozzo terribile il ragazzo scaraventò via la sedia e cadde in ginocchio, i lineamenti distorti dal dolore, le palpebre serrate, i denti scoperti. Alicia Aguado allungò le mani davanti a sé per cogliere le vibrazioni dell’aria. Il corpo di Sebastián fu scosso un’ultima volta da una sorta di convulsione, poi giacque sul pavimento.

Solo allora gli uomini presenti nella stanza reagirono, sedie e tavolo vennero tolti di mezzo e tutti quanti si avvicinarono a Sebastián, formando un circolo intorno a lui, che ora aveva assunto una posizione fetale, con le braccia che stringevano le ginocchia. La testa si agitava spasmodicamente sul pavimento lucido e grandi singhiozzi senza lacrime scuotevano il petto come se volessero espellere dei sassi dal torace.

L’infermiere gli si inginocchiò accanto, aprì la borsa e tirò fuori una siringa. Le guardie si tennero pronte a intervenire, ma Alicia girò a tentoni intorno al tavolo e allungò la mano verso il corpo tremante di Sebastián.

«Non lo tocchi!» raccomandò una guardia.

La mano di Alicia trovò la nuca di Sebastián, lo accarezzò. E mentre la donna bisbigliava il suo nome, le convulsioni del ragazzo si fecero meno violente, la stretta delle dita sulle caviglie si allentò e i singhiozzi, fino a quel momento senza lacrime, si trasformarono in pianto, un pianto come Falcón non aveva mai visto. Lacrime e saliva inondarono il viso di Sebastián, che cercò di portarsi le mani sulla faccia per nascondere quel terribile scoppio emotivo, ma non ci riuscì, forse troppo debole. Le guardie arretrarono di qualche passo, non più preoccupate, solo leggermente imbarazzate. L’infermiere ripose la siringa nella borsa. Lo psicologo valutò la situazione e decise di non intervenire.

Dopo dieci minuti di pianto dirotto, Sebastián si rotolò sulle ginocchia e nascose il volto tra le braccia piegate sul pavimento, le spalle scosse dai singulti. A quel punto lo psicologo decise che dovesse essere riportato in cella, dove gli sarebbe stato somministrato un sedativo. Le guardie cercarono di farlo rialzare, ma il ragazzo non aveva forza nelle gambe. In quello stato non era possibile farlo muovere e perciò lo lasciarono per terra e andarono a prendere una sedia a rotelle. Falcón raccolse la lettera e la consegnò allo psicologo, le guardie tornarono con una barella presa nell’infermeria della prigione e Sebastián venne condotto via.

Lo psicologo volle leggere la lettera per controllare che il suo contenuto non fosse tale da turbare ulteriormente il ragazzo e Falcón ebbe modo di vedere che sul foglio erano state scritte pochissime parole:

Caro Sebastián,

mi dispiace più di quanto potrò mai dire. Per favore, perdonami.

Con affetto,

tuo padre Pablo

Falcón e Alicia ripercorsero in macchina il paesaggio bruciato intorno al carcere e si immersero di nuovo nel caldo devastante della città. Alicia Aguado era girata verso il finestrino e il terreno privo di vita le scorreva davanti agli occhi che non vedevano. Domande si affollavano nella mente di Falcón, che tuttavia restava in silenzio: dopo la scena a cui aveva assistito ogni parola sembrava banale.

«Nonostante siano passati tanti anni», disse a un tratto Alicia, «ancora mi stupisco del potere terrificante della nostra mente. Nella testa abbiamo questo organismo che, se glielo permettiamo, può distruggerci al punto che non saremo mai più quelli di prima… eppure è nostro, appartiene a noi. Non abbiamo idea di che cosa stia appollaiato sulle nostre spalle.»

Falcón non disse nulla, Alicia non voleva una risposta.

«Si assiste a una cosa come quella», continuò, agitando la mano nella vaga direzione del carcere, «e non si riesce a immaginare che cosa sia accaduto nella mente di quel ragazzo, che cosa sia successo tra lui e il padre. È stato come se la notizia della sua morte fosse penetrata dritta fino al centro del suo essere e lo avesse squarciato, aprendolo e lasciando uscire tutte quelle emozioni determinate dall’evento traumatico incredibilmente potenti, incontenibili. Probabilmente era vivo solo in apparenza, la sua era un’esistenza da automa. Si è fatto rinchiudere in carcere, in confino solitario, i contatti ridotti praticamente a zero. Ha cessato di funzionare come essere umano, eppure la mente ha dovuto trovare una via di uscita.»

«Perché crede che sia sollevato nell’essere rinchiuso là?»

«Suppongo che sia arrivato al punto di avere paura di ciò che avrebbe potuto fare la sua mente incontrollabile.»

«Pensa di potergli parlare?»

«Be’, mi sono trovata lì nel momento di crisi di Sebastián — il suicidio di suo padre — e credo che tra noi si sia stabilito un legame. Se le autorità carcerarie me lo permetteranno, penso di poterlo aiutare.»