«Conosco il direttore del carcere», disse Falcón, «gli dirò che il suo intervento potrebbe essere prezioso per le indagini sulla morte di Vega.»
«Ma lei crede davvero che vi sia un collegamento? Tutta questa storia di Pablo… mi sembra di sentire il suo cervello che rimugina.»
«Lo credo, ma non sono certo di che cosa sia.»
Lasciò Alicia Aguado davanti a casa e fece un altro tentativo di mettersi in contatto con Ignacio Ortega, che però aveva ancora il cellulare spento. Lo chiamò Consuelo per proporgli uno spuntino di mezzogiorno a Casa Ricardo, un bar a metà strada tra il suo ristorante e la casa di Falcón. Decise di lasciare a casa la macchina e andare a piedi, parcheggiò tra gli aranci e si avviò al portone per aprirlo. Mentre cercava le chiavi, si sentì chiamare da una donna sull’altro lato della strada: Maddy Krugman era appena uscita da un negozio di piastrelle dipinte a mano. La sua aria sorpresa non bastò a convincerlo che l’incontro fosse casuale.
«E così questa è la sua casa», disse Maddy, ferma con lui sul vialetto tra gli aranci che conduceva al portone di legno. «La famosa Casa.»
«La famigerata casa», la corresse Falcón.
«Quello è il mio negozio preferito di Siviglia», riprese la donna. «Credo che comprerò tutto quello che hanno e me lo porterò a New York.»
«Partite?»
«No, non immediatamente. Ma prima o poi succederà. Torniamo tutti quanti al punto di partenza, sa.»
Falcón non era sicuro di capire esattamente ciò che volesse dire e nemmeno che lo capisse lei stessa. Per un po’ si trastullò con la possibilità di augurarle buona fortuna con le sue spese e di scomparire in casa, ma non si risolse a trascurare così le buone maniere.
«Vuole vedere l’interno della casa famigerata?» le domandò. «Posso offrirle qualcosa da bere?»
«È molto gentile da parte sua, Inspector Jefe. Sono stata per negozi e sono sfinita.»
Entrarono. Falcón la fece accomodare sotto il portico del patio davanti alla fontana gorgogliante e andò a prendere una bottiglia di La Guita e qualche oliva. Al suo ritorno, Maddy Krugman era dall’altra parte del patio e sbirciava attraverso la porta a vetri qualche dipinto di Francisco Falcón raffigurante Siviglia.
«Questi sono…?»
«Sì, sono le sue vere opere», le disse porgendole un bicchiere di manzanilla. «Non ha dovuto imbrogliare per dipingere quei quadri. Sapeva fare di meglio, però. Evidentemente il suo subconscio cercava di sminuirlo. Se avesse continuato avrebbe finito per dipingere zingare a seno nudo e bambini dagli occhi di cerbiatto che fanno pipì nelle fontane.»
«E che mi dice delle sue opere?»
«Non esistono.»
«Ho letto che lei era fotografo.»
«Ero interessato al concetto di fotografia come memoria», spiegò Falcón, «ma non ho nessun talento per quest’arte. E lei? Come vede la fotografia? Che cosa la spinge a fotografare gente turbata e angosciata?»
«Quale idiozia le ho rifilato in proposito?»
«Non ricordo… probabilmente qualcosa sulla possibilità di catturare l’istante», rispose Falcón, ricordando che, in realtà, quell’idiozia era stata sua.
Tornarono al tavolino e Falcón rimase in piedi, appoggiato a una colonna, mentre Maddy sedeva, accavallando le gambe e sorseggiando la manzanilla.
«Io enfatizzo», disse, e Falcón capì che non avrebbe ascoltato nulla che potesse importargli minimamente. «Quando vedo persone così, ricordo la prigione che era la mia propria angoscia e il dolore che ho causato a Marty. C’è una reazione emotiva. Mi ha sorpreso, quando ho cominciato a osservare la gente, scoprire in quanti eravamo. Le foto sono di individui, ma una volta riunite in una stanza quegli individui si trasformano in una specie di tribù, sono l’espressione della realtà della condizione umana. Diavolo! Per quanti sforzi io faccia, mi sembra sempre di sentire i discorsi che si fanno nelle gallerie. Non è così anche per lei? Le parole hanno un loro modo di appiattire tutto.»
Falcón fece segno di sì, già annoiato. Si domandò che cosa vedesse in lei Calderón, a parte le vene azzurre sotto la pelle candida, fredda come marmo. Quella donna viveva la vita come un progetto. Falcón soffocò uno sbadiglio.
«Lei non mi sta ascoltando», disse Maddy Krugman.
Falcón si girò e la trovò vicinissima a lui, tanto vicina da poterle vedere le macchie rosse di sangue nel verde dell’iride. Maddy si passò la lingua sulle labbra, applicandovi un lucido naturale. La sensualità che la rendeva così sicura di sé vibrava sotto la seta della blusa sbottonata. Mosse la testa, piegandola leggermente di lato, per informarlo che ora poteva baciarla, mentre i suoi occhi gli comunicavano che la cosa avrebbe potuto trasformarsi in qualcosa di frenetico sul pavimento in marmo del patio, se soltanto lo avesse voluto. Falcón si girò dall’altra parte, vagamente disgustato.
«Ascoltavo a metà», disse, «ma ho molte cose per la testa e devo vedere una persona per colazione, perciò bisogna che vada.»
«Vado anch’io», disse lei. «Devo rientrare.»
Le tremavano le mani per la rabbia mentre raccoglieva il sacchetto con le piastrelle dipinte a mano. Per un attimo Falcón pensò che le sarebbe piaciuto tirargliele in testa, una alla volta. C’era qualcosa di distruttivo nella sua natura, era come una bambina viziata che rompeva le cose solo perché gli altri non potessero goderne.
Il percorso fino alla porta di casa fu punteggiato dalla furia dei suoi tacchi sul marmo. Lo precedeva, così che lui non potesse vedere la sua umiliazione mentre ricomponeva i frammenti della faccia che aveva perduto e li risistemava in un’espressione sprezzante. Falcón aprì la porta, lei gli strinse la mano e si avviò in direzione dell’Hotel Colón.
Il bar Casa Ricardo, sulla Hernan Cortés all’incrocio di tre vie, era un locale che poteva esistere soltanto a Siviglia, dove il sacro e il profano si sfioravano di continuo. Ogni centimetro delle pareti del bar e del ristorantino sul retro era ricoperto da immagini della Vergine, delle confraternite e di tutti gli armamentari della Semana Santa. La musica di fondo era quella suonata durante le processioni della Settimana santa, mentre la gente appoggiata al bar beveva birra e mangiava olive e jamón.
Consuelo lo aspettava a un tavolo in un angolo del locale, davanti a una mezza bottiglia di manzanilla gelata. Si baciarono sulla bocca, come se fossero amanti da mesi.
«Mi sembri teso», disse lei.
Falcón cercò di pensare a qualcosa che non fosse Pablo Ortega, del quale non poteva parlare.
«È solo per gli sviluppi del caso, continuiamo a scoprire cose su Rafael Vega che lo rendono sempre di più l’uomo del mistero.»
«Be’, lo sapevamo tutti che era un tipo da avere dei segreti», disse Consuelo. «Una volta l’ho visto uscire di casa con la macchina, la Mercedes che aveva prima di comprare la Jaguar. Un’ora dopo ero a un semaforo e accanto a me si ferma una vecchia familiare Citroen o Peugeot tutta impolverata. Al volante c’è Rafael. Se si fosse trattato di chiunque altro, avrei bussato sul vetro e l’avrei salutato, ma con Rafael, non so… non è una cosa che si poteva fare con Rafael.»
«Gli hai mai fatto domande in proposito?»
«Prima di tutto non rispondeva mai alle domande dirette e, comunque sia, che importanza aveva che fosse in un’altra macchina? Ho pensato semplicemente che si trattasse di un’auto della sua impresa che usava per visitare i cantieri.»
«Probabilmente hai ragione, non c’è niente di strano. Si arriva a pensare che qualsiasi sciocchezza abbia un significato.»
Ordinarono revuelto de bacalao, frutti di mare e gamberi, una ciotola di un bel colore arancio vivo di salmorejo e peperoni rossi alla griglia con aglio. Consuelo riempì i bicchieri. Falcón si sentì più calmo.