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«Dipende dal tipo di società nella quale si è costruita la propria vita. All’importanza che si dà all’opinione di questa società», spiegò Falcón. «A proposito, ha lei il testamento del signor Vega?»

«Sì.»

«Chi è il suo parente più stretto?»

«Come ho detto, non aveva nessuno.»

«E la moglie?»

«Ha una sorella che vive a Madrid. I loro genitori abitano qui, a Siviglia.»

«Avremo bisogno di qualcuno per identificare i cadaveri.»

Pérez si affacciò sulla soglia.

«Abbiamo il biglietto che Vega stringeva nel pugno!» annunciò.

Falcón e Vásquez lo seguirono nella cucina, facendosi largo tra gli uomini della scientifica che ostruivano il corridoio con le loro attrezzature, in attesa di essere ammessi alla scena del delitto.

Il foglietto era già in un sacchetto di plastica. Calderón glielo porse, inarcando le sopracciglia. Leggendo, Falcón e Vásquez aggrottarono la fronte e non solo perché quelle parole erano scritte in inglese: «nell’aria sottile che respirerete dall’11 settembre fino alla fine».

2

Mercoledì 24 luglio 2002

«Queste parole le dicono qualcosa?» domandò Calderón.

«Assolutamente nulla», rispose Vásquez.

«La grafia le sembra quella di Vega?»

«È decisamente quella del signor Vega… è tutto quanto posso affermare.»

«Non differisce in niente dalla sua scrittura usuale?»

«Non sono un esperto, Juez», disse Vásquez, «ma non mi sembra che gli tremasse la mano, anche se la scrittura non è molto rapida, le parole mi paiono scritte con cura, non buttate giù in fretta.»

«Non è quella che definirei la lettera di un suicida», osservò Falcón.

«Come la definirebbe, Inspector Jefe?» domandò Vásquez.

«Un enigma. Qualcosa che richiede un’indagine.»

«Interessante», commentò Calderón.

«Davvero?» disse Vásquez. «Noi abbiamo sempre l’impressione che il lavoro degli investigatori sia molto interessante, ma questo…?»

«Se lei fosse un assassino, non vorrebbe che si investigasse su ciò che ha fatto», spiegò Falcón. «Non vorrebbe essere scoperto. Poco fa mi ha detto che la scena del delitto le sembrava indicare un suicidio. Un assassino che avesse un movente normalmente cercherebbe di dare credibilità alla tesi del suicidio con un biglietto esplicito e non con uno scritto che dia da pensare alla squadra investigativa: ma che cosa c’è sotto?»

«A meno che non si tratti di un pazzo», obiettò Vásquez. «Di uno di quei serial killer che lanciano una sfida.»

«Be’, per prima cosa, la sfida non c’è. Poche parole nella grafia del signor Vega non sono ciò che io chiamerei il tentativo di comunicare di uno psicotico. È troppo ambiguo. In secondo luogo la scena del delitto non contiene nessuno dei tratti caratteristici che associamo all’omicida psicopatico. Questo tipo di omicida, per esempio, tiene presente la posizione del cadavere, introduce qualche elemento delle sue ossessioni, vuole mostrare di essere stato sulla scena, vuole mostrare il lavorio di una mente complessa. Non c’è niente di casuale nella scena di un delitto in cui l’omicida sia un serial killer. Una bottiglia di liquido per sgorgare gli scarichi non viene lasciata dove è caduta. Tutto ha una sua importanza.»

«Ma quale persona normale ucciderebbe un uomo e sua moglie e poi vorrebbe che si investigasse sul delitto?» domandò Vásquez.

«Potrebbe farlo un assassino che avesse buoni motivi per odiare il signor Vega e volesse svelare pubblicamente che genere di persona fosse», rispose Falcón. «Come forse sa, le indagini su un omicidio sono faccende molto invasive, per scoprire il movente dobbiamo eseguire un’autopsia non soltanto sul cadavere, ma anche sulla vita della vittima. Dobbiamo investigare su tutto, affari, rapporti sociali, situazioni private e personali, scavando il più a fondo possibile. Forse lo stesso signor Vega…»

«Però, Inspector Jefe, non si può mai entrare nella testa degli altri, vero?» osservò Vásquez.

«L’altra possibilità è che sia lo stesso signor Vega a voler comunicare con noi. Stringendo nel pugno quel biglietto, forse ci sta chiedendo di indagare sul crimine.»

«Non mi ha fatto finire», disse Vásquez. «L’unica cosa che ho imparato nel mio lavoro è che una persona ha tre voci: la voce pubblica, con la quale si rivolge agli estranei, quella privata che riserva alla famiglia e agli amici e la più inquietante di tutte, la voce che parla nella sua testa, quella che usa per parlare con se stesso. La gente di successo come il signor Vega ha una voce interiore molto potente. Ma ho notato una cosa in questo genere di persone… non permettono a nessuno di avere accesso a quella voce, né ai genitori, né alla moglie, né all’unico figlio.»

«Non è questo il punto…» cominciò Falcón.

«Il punto», intervenne Calderón, «è che possiamo capire le azioni di un uomo, il modo in cui si comporta con gli altri… con persone diverse, tutto questo ci fa comprendere molte cose di lui.»

«Nella mia esperienza, ci dice solo ciò che lui vuole farci credere», disse Vásquez. «Lasciate che vi mostri qualcosa e poi mi direte che cosa avete capito del signor Vega. Adesso possiamo entrare in cucina?»

Felipe e Jorge furono invitati a controllare e a sgomberare una corsia sul pavimento della cucina; Falcón dette a Vásquez un paio di guanti di lattice. Attraversarono la cucina fino a una porta che immetteva in una stanza con tre pareti occupate da frigoriferi di acciaio inossidabile, alti fino al soffitto. Sulla parete libera era appesa una quantità impressionante di coltelli da macellaio e di seghe. Le piastrelle bianche del pavimento erano immacolate ed emanavano un lieve profumo di detersivo all’odore di pino. Al centro della stanza si trovava un tavolo di legno. Il piano, spesso una trentina di centimetri, era attraversato da segni e tacche, con avvallamenti nel mezzo, e aveva i bordi consumati dall’uso. Nell’osservare il tavolo Falcón provò una strana sensazione di paura.

«È qui che Vega tiene i cadaveri, signor Vásquez?» scherzò Calderón.

«Guardate nei frigoriferi e nei freezer», suggerì l’avvocato. «Sono pieni di cadaveri.»

Calderón aprì lo sportello di un frigorifero: all’interno era stivata la carcassa di un manzo al quale erano stati segati gli zoccoli, la carne scoperta di un rosso cupo, scuro, quasi nero nelle parti prive della membrana madreperlacea o coperta di grasso cremoso e giallastro. I frigoriferi ai due lati contenevano parecchi agnelli e un maiale roseo, la cui testa tagliata era appesa a un gancio, le orecchie rigide, gli occhi dalle lunghe ciglia bianche chiusi come in un sonno ristoratore. Gli altri sportelli si aprivano su freezer con tagli di carne surgelata e riposta in vaschette o semplicemente ammucchiata nelle profondità gelide e buie.

«Che cosa vi dice tutto questo?» domandò Vásquez.

«Che non era vegetariano», disse Calderón.

«Gli piaceva macellare da sé la carne. Dove la comprava?» domandò Falcón.

«Da certi allevamenti della Sierra de Aracena», rispose Vásquez. «Diceva che a Siviglia non c’era nemmeno un macellaio che sapesse trattare la carne, né appendere le carcasse, né tagliarla.»

«Vuol dire che aveva fatto il macellaio?» domandò Falcón. «Lei sa quando e dove?»

«So soltanto che suo padre faceva il macellaio prima di essere ucciso.»

«Prima di essere ucciso? Che cosa significa? Era stato assassinato o…?»

«Era questa l’espressione che usava per descrivere la morte dei genitori: ‘Sono stati uccisi’. Non ha mai dato nessuna spiegazione e io non gliel’ho mai chiesta.»

«Quanti anni aveva il signor Vega?»

«Cinquantotto.»

«Perciò era nato nel 1944… cinque anni dopo la fine della Guerra civile. Non morirono durante la guerra», fece notare Falcón. «Lei sa quando furono uccisi?»