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«Ah, già, la tua ossessione per i bambini», disse Falcón. «Tra i due e i cinque milioni.»

«Ora ti darò l’unica statistica positiva. Il tasso di fertilità della Russia è quasi il più basso al mondo. Quasi. E a questo punto mi sono resa conto che la ragione per cui questi dati sono stati pubblicati su un giornale spagnolo è che l’unico altro Paese con un tasso di natalità inferiore a quello della Russia è…»

«La Spagna», concluse Falcón.

«Per questo dico che il tuo tempismo è stato perfetto. Mi ero appena immersa nel pensiero domenicale sul disastro planetario.»

«Ho una soluzione temporanea alla crisi mondiale.»

«Dimmela.»

«Manzanilla. Una nuotata. Paella. Rosado. E una lunga siesta che si prolunghi fino a lunedì.»

Si svegliò di notte a causa di un sogno troppo realistico. Stava camminando lungo un sentiero in un bosco fitto. Verso di lui venivano due bambini, fratello e sorella, di circa dodici anni. Fra loro camminava un uccello totemico con una maschera paurosa. Giunto vicino a lui, l’uccello gli aveva detto: «Ho bisogno di queste due vite». Sul volto dei bambini Falcón aveva visto un terrore insostenibile, ma non aveva potuto aiutarli. Pensò che fosse stato l’incubo a svegliarlo, ma dopo un po’ si rese conto che al pianterreno la televisione era ancora accesa. Voci parlavano in americano. Consuelo dormiva accanto a lui.

In soggiorno la luce del televisore pulsava nel buio. Falcón lo spense col telecomando. Sentì caldo e notò che la vetrata scorrevole che dava sulla piscina era aperta di circa mezzo metro.

Accese la luce e Consuelo scese le scale ancora semiaddormentata.

«Che succede?»

«Il televisore era acceso», spiegò Falcón. «Per caso avevamo lasciato la vetrata aperta?»

Di colpo Consuelo fu perfettamente sveglia, gli occhi spalancati. Indicó un punto nella stanza e gridò, come se avesse visto qualcosa di spaventoso.

Falcón seguì il suo dito. Sul tavolino era posata una fotografia in cornice dei figli di lei. Qualcuno aveva tracciato una grossa croce rossa sul vetro.

20

Lunedì 29 luglio 2002

Mentre si dirigeva verso la Jefatura il notiziario della radio lo informò che l’incendio divampava ancora nei pressi di Almonaster la Real. Venti che soffiavano a cinquanta chilometri all’ora non rendevano più facile il compito delle squadre antincendio, costrette a lasciar bruciare i boschi.

La segretaria lo fece entrare immediatamente nell’ufficio del suo diretto superiore, il Comisario Elvira, che trovò seduto alla scrivania, un ometto ordinato, con baffetti fini e capelli neri pettinati con la riga da una parte, disegnata con la stessa precisione da raggio laser di quella del primo ministro in carica. Un uomo del tutto diverso dal suo predecessore, Andrea Lobo, il quale forse aveva avuto una conoscenza maggiore del fango primordiale da cui provenivano gli esseri umani.

Elvira era il tipo d’uomo che teneva le matite ben allineate sulla scrivania.

Falcón gli fece un resoconto verbale del lavoro svolto durante il fine settimana e avanzò una richiesta per una protezione discreta da parte della polizia per i figli di Consuelo Jiménez, in quel momento al mare con una zia, vicino a Marbella.

«Lei è rimasto dalla signora Jiménez questa notte?» gli domandò Elvira.

Falcón trasalì. Niente era sacro nella Jefatura.

«Non è stata questa la prima minaccia dall’inizio delle indagini», disse, evasivo su quel punto. «L’ho vista sabato a mezzogiorno e mi ha detto che qualcuno della Jefatura le aveva dato una busta per me. Dentro c’era questa foto.»

Elvira tirò a sé il sacchetto di plastica ed esaminò la fotografia di Nadia legata alla sedia.

«Questa donna ucraina è scomparsa dopo averci aiutato nelle indagini», spiegò Falcón.

«Niente altro?»

«Il primo giorno un’auto con targa rubata mi ha seguito fino a casa. Il secondo giorno ho trovato una fotografia della mia ex moglie fissata al pannello di sughero dietro la scrivania con uno spillo che le attraversava la gola.»

«Sembra che questi russi siano ben informati sulla sua vita, Inspector Jefe. Che cosa sta facendo a proposito di queste minacce?»

«Credo che lo scopo delle minacce sia di esercitare una pressione su di me direttamente», rispose Falcón. «Se ci fosse stata una minaccia iniziale che poi avesse avuto un seguito, sarei più preoccupato, ma ognuna di queste è stata diversa e specifica a riguardo della mia situazione. Stanno cercando di distogliermi dal mio impegno e indurmi a tralasciare il caso Vega.»

«Allora non è intenzionato a destinare ad altro parte delle sue risorse?»

«Se intende dire che mi assumo la responsabilità di mantenere sul caso Vega le poche risorse a disposizione, allora sì, è così.»

«Tanto per curiosità, Inspector Jefe, ha escluso dalle indagini la signora Jiménez?»

«A questo punto non abbiamo né sospetti, né testimoni, né un movente.»

«E un’altra cosa… Pablo Ortega. Mi risulta che abbia accompagnato da lui una psicologa che forse avrebbe potuto aiutare suo figlio. L’ha anche accompagnata al carcere. C’è un collegamento tra questi casi e la morte dei Vega?»

Silenzio. Falcón cambiò posizione sulla sedia.

«Inspector Jefe?»

«Non lo so.»

«Ma crede che ci sia… qualcosa?»

«Devo lavorarci ancora su», disse Falcón, «e questo significa altro tempo.»

«Abbiamo fiducia nelle sue capacità e l’appoggiamo nei suoi sforzi», assicurò Elvira, «purché lei non faccia niente che screditi le forze dell’ordine. Telefonerò alla Jefatura di Málaga e farò in modo che un agente tenga d’occhio con discrezione la sorella e i figli della signora Jiménez.»

Falcón scese al piano del suo ufficio ripensando a un commento di Elvira. I russi conoscono la tua situazione. Proprio così. E come facevano a conoscerla?

«Ha trovato il cellulare di Pablo Ortega?» domandò a Cristina Ferrera entrando nella sua stanza.

«Sto proprio lavorando alle telefonate», rispose la Ferrera. «Pare che usasse il fisso solo per le telefonate in arrivo. Per chiamare utilizzava il cellulare.»

«Voglio sapere con chi ha parlato nelle ore precedenti alla morte.»

«E la chiave trovata nel congelatore di Vega?» domandò Ramírez.

«Potrà occuparsi di quello dopo», disse Falcón. «Che mi dite della carta di identità di Vega?»

«Ci vuole tempo, hanno esaminato i dati inseriti nel computer e ora stanno lavorando sui registri tenuti manualmente.»

«E gli argentini?» si informò Falcón mentre componeva il numero di Carlos Vásquez.

«Sono a corto di personale per via delle ferie», spiegò Ramírez entrando nell’ufficio di Falcón. «Hanno inviato i dati a Buenos Aires.»

Falcón gli mostrò la foto di Nadia Kouzmikheva. Ramírez picchiò il pugno sul muro.

«Qualcuno l’ha data a Consuelo Jiménez in un bar, le ha detto di consegnarmela», spiegò Falcón, alzando subito dopo un dito per chiedere silenzio. «Ho una domanda da farle sulle automobili in dotazione alla Vega Construcciones», disse parlando al telefono.

«Non ce n’erano», rispose Vásquez. «Rafael non voleva intestare macchine alla ditta. Ognuno usava la sua e si faceva rimborsare le spese.»

«Ma presumo che avessero delle auto che il personale poteva usare per servizio?»

«No. La Vega Construcciones in passato aveva molte auto e attrezzature, ma alla fine erano risultate troppo costose da gestire. Perciò, a partire da qualche anno fa, Rafael ha ridotto tutto quanto al minimo, si è liberato delle auto e ha cominciato a noleggiare quello che gli serviva. Gli ingegneri, gli architetti, usavano tutti la loro macchina.»