«Erano insieme in una foto appesa nello studio di Raúl Jiménez. E i nomi si trovano tutti nella rubrica di Vega… Mi è appena venuta un’idea. Bisogna che la controlli. Mi dica quali modifiche ha fatto Montes al testamento.»
«Ha aggiunto una proprietà ai suoi beni», rispose Ramírez. «Una piccola finca, un valore di nemmeno tre milioni di pesetas.»
«Scommetto che per un momento avrà avuto un tuffo al cuore.»
«Non credo che avrei ottenuto l’informazione tanto facilmente, se si fosse trattato di una villa da duecento milioni a Marbelìa.»
«Ha detto dov’era?»
«Non riusciva a ricordarlo, avrebbe guardato sulla copia del testamento e mi avrebbe richiamato.»
«Nessuna ipoteca sulla finca?»
«Non lo sapeva. Non era stato coinvolto nell’acquisto.»
«Quando avrà l’indirizzo, controlli l’atto di compravendita e veda se ne aveva mai parlato con qualcuno della sua squadra.»
Squillò un telefono e Ramírez andò a rispondere, curvo su una scrivania a scribacchiare rapidamente per qualche minuto. Poi riattaccò il ricevitore con aria trionfante.
«Abbiamo un risultato sulla carta di identità di Vega», annunciò. «Il vero Rafael Vega è morto nel 1983 all’età di trentanove anni in un incidente navale nel porto di La Coruña; l’altro è morto la scorsa settimana per aver ingerito acido.»
«Come ci è riuscito?»
«Il primo è morto proprio nel momento in cui stavano cambiando il sistema da manuale a computerizzato e sul computer risultava ancora vivo. Soltanto risalendo ai vecchi registri manuali hanno trovato il certificato di morte.»
«Aveva l’età giusta.»
«Aveva l’età giusta, l’aspetto fisico giusto e non aveva famiglia. Il Rafael Vega originario era un orfano divenuto marinaio. Non si era mai sposato.»
«Perciò, non soltanto il nostro Rafael Vega aveva ricevuto un addestramento particolare, ma era anche ben introdotto nel mondo della clandestinità», osservò Falcón. «Finalmente una breccia, José Luis, ma…»
«Sì, lo so», disse Ramírez, «non era chi diceva di essere… ma chi cazzo era?»
«Esiste un collegamento americano. Krugman è sicuro che abbia vissuto negli Stati Uniti e ora sappiamo che riceveva posta da là. E può darsi che esista anche un collegamento messicano.»
«La moglie messicana potrebbe essere solo un’altra invenzione», obiettò Ramírez. «Per un uomo di quell’età sarebbe più plausibile essere già stato sposato.»
«A questo punto direi che potrebbe essere originario dell’America Centrale o Meridionale.»
«Se lei fosse argentino, userebbe un passaporto falso del suo Paese di origine?»
«Forse no, ma ci rimane ancora tutto il resto del subcontinente», ribatté Falcón. «Forse dovremmo incontrarci con il Juez Calderón. Era già stabilito che avremmo avuto una riunione con lui nei primi giorni della settimana. Credo che questo possa essere definito uno sviluppo.»
Chiamò la segretaria del magistrato: il giudice era impegnato, ma forse avrebbe potuto riceverli prima dell’intervallo di mezzogiorno; il pomeriggio era fuori discussione. Falcón riattaccò e si allungò sulla poltrona girevole.
«Quale genere di persone ha bisogno del livello di segretezza che usava Rafael Vega?»
«Il genere che opera sotto copertura per lo Stato o per un’organizzazione terroristica», rispose Ramírez. «Il genere che è coinvolto nel traffico di stupefacenti.»
«O nel traffico di armi?» suggerì Falcón. «Il collegamento russo. Qual è il posto dove ottenere più facilmente armi in dotazione all’esercito?»
«La Russia, tramite la mafia. E i soldi arrivavano dai progetti immobiliari. Quei contratti per i terreni erano stati stipulati direttamente tra i proprietari e i russi, nessun contatto con Vega.»
«Plausibile, ma questo ci mette davanti a un altro problema. A chi stava fornendo le armi e, prima che ci lasciamo prendere dall’immaginazione, perché ucciderlo?»
«Potrebbe trattarsi di un’organizzazione terroristica che non vuole lasciare assolutamente nessuna traccia», suggerì Ramírez.
La segretaria di Calderón richiamò per dire che il giudice avrebbe potuto riceverli entro mezz’ora. Presero la macchina per andare all’Edificio de los Juzgados e salirono immediatamente nell’ufficio di Calderón, il quale, rivolto verso la finestra, fumava guardando attraverso le fessure delle veneziane. Li udì entrare e disse loro di accomodarsi.
«Abbiamo un caso o non abbiamo un caso?» domandò senza voltarsi.
«Complicazioni», annunciò Falcón, incominciando a riferirgli sulla vita segreta di Rafael Vega.
Falcón stava ancora parlando quando il giudice si girò verso di lui. Se l’ultima volta che Falcón lo aveva visto Calderón aveva avuto l’aspetto di un uomo appena tornato in città dopo essersi smarrito sulle montagne, ora aveva l’espressione folle di chi avesse dovuto divorare i compagni per sopravvivere: aria allucinata, violacei i cerchi sotto gli occhi e la fronte profondamente corrugata. Pareva anche dimagrito, il colletto era diventato largo. Falcón terminò il suo rapporto e Calderón annuì, apparentemente interessato, ma non troppo. Quelle notizie non erano servite a galvanizzare la sua ambizione.
«Be’, ora avete qualche informazione in più sul retroscena della vita di Vega», disse, «ma non mi avete ancora presentato nessun vero sviluppo del caso: nessun testimone, nessun movente. Che cosa volete esattamente?»
«Potremmo cominciare con un mandato di perquisizione per la cassetta di sicurezza al Banco Banesto», intervenne Ramírez, dopo aver scambiato un’occhiata con Falcón.
«Di chi è la cassetta?»
«Di Vega, naturalmente», rispose Ramírez, perplesso per la disattenzione del giudice, «ma a nome di Emilio Cruz.»
«Me ne occuperò. Che altro?»
«Abbiamo alcune ipotesi sulle quali lavorare, ci occorre altro tempo», disse Falcón. E accennò ai collegamenti della mafia russa nel traffico di armi e ai nomi degli uomini che, a quanto pareva, si conoscevano tutti tra loro, trovati nella rubrica di Vega e riconosciuti nelle fotografie di Raúl Jiménez.
«Sono tutte congetture», obiettò Calderón. «Dove sono le prove? Vega ha mandato avanti un’impresa immobiliare di successo a Siviglia per quasi vent’anni, partendo praticamente da zero. D’accordo, gestisce i suoi affari in un certo modo e…»
«Mi sembra che stia dimenticando che si tratta di un uomo con documenti spagnoli falsi apparentemente perfetti e di un passaporto argentino con visti marocchini pronti per una fuga rapida», interloquì Ramírez. «Mi riesce difficile credere che quel livello di segretezza lo qualifichi, mettiamo, come un marito che si stia imbarcando in una relazione illecita.»
Calderón gli sparò un’occhiata che passò sibilando accanto all’orecchio di Ramírez.
«Questo lo vedo», disse, «ovviamente quell’uomo ha un passato, è fuggito da qualcosa e si è rifatto una vita. Forse questo suo passato si è rifatto vivo in qualche modo, ma la cosa non vi aiuta a stabilire quale direzione prendere nelle indagini. Mi parlate di traffico d’armi, di droga, di tratta di persone e di terrorismo, ma non avete fornito una traccia concreta che indichi una direzione oppure un’altra. Avete soltanto teorie. È vero che l’acquisto dei terreni da parte dei russi è strano e il loro rapporto con Vega quanto meno malsano, ma non abbiamo modo di risalire al proprietario precedente. Sì, potete recuperare l’importo dall’atto di vendita, ma non vi dirà molto, perché dichiarano tutti una cifra più bassa per via del fisco. È necessaria una concatenazione logica dei dati da presentare al Juez Decano, per poter spendere denaro pubblico a dare la caccia a queste… idee.»
«Lei non vede nessun collegamento tra la morte del signor Vega e il suicidio del suo vicino?» domandò Ramírez.
«Non me ne avete fatta vedere nessuna, a parte nomi e indirizzi in una rubrica e gente che compare insieme in qualche fotografia», ribatté Calderón, soffocando uno sbadiglio. «E nemmeno il Juez Romero ha visto qualcosa. I due ‘suicidi’ sembrano una coincidenza, con la differenza che in un caso non esistono dubbi e nell’altro c’è qualche incertezza. Un’incertezza che è dentro di noi, non in una prova che mi abbiate messo davanti.»