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«Avevo sedici anni», rispose alla fine il ragazzo. «E nessuno può aiutare mio cugino.»

«Hai seguito la vicenda di Sebastián?»

La mano che teneva la sigaretta tremò. Salvador annuì e ricacciò con un respiro ciò che gli era salito alla gola, qualsiasi cosa fosse stato.

«Ti fai di eroina?» gli domandò Falcón, per spostarsi su un terreno più sicuro.

«Sì.»

«Da quanto tempo?»

«Da quando avevo quindici anni.»

«E prima?»

«Ho cominciato a fumare hashish quando avevo dieci anni… fino a quando non ha più funzionato. Poi sono passato alla roba che funziona.»

«Funziona come?»

«Mi porta via da me stesso… in un posto dove mi sento a casa con la mente e col corpo.»

«E dov’è questo posto?»

Il ragazzo batté le palpebre, lanciando una rapida occhiata a Falcón, impreparato a quel genere di domande.

«È dove mi sento libero. E cioè da nessuna parte.»

«Facevi già uso di eroina la prima volta che Sebastián venne a stare da voi?»

«Sì, ricordo che stavo… bene.»

«Che cosa ricordi di Sebastián?»

«Era un ragazzino… simpatico.»

«Tutto qui?» si stupì Falcón. «Non parlavi con lui? Non giocavate insieme? Voglio dire, sua madre lo aveva abbandonato e il padre era assente. Deve averti visto come un fratello maggiore.»

«Ci vuole tempo per mettere insieme i soldi quando ci si fa di eroina a sedici anni», spiegò Salvador. «Ero troppo impegnato a scippare i turisti e a non farmi prendere dai poliziotti.»

«Perché hai cominciato così presto a fumare hashish?»

«Fumavano tutti, a quel tempo si comprava al bar con la Coca Cola.»

«Comunque sia, dieci anni sono molto pochi.»

«Probabilmente non ero felice», disse Salvador, sorridendo senza convinzione.

«Era per via di qualche problema in famiglia?»

«Mio padre era severissimo. Ci picchiava.»

«Picchiava chi? Te e tua sorella?»

«No, mia sorella no… a lei non era interessato.»

«Interessato?»

Salvador spense la sigaretta con forza e si strinse la mani tra le cosce.

«Senta», disse, «non mi va di essere… assillato.»

«Voglio solo capire esattamente quello che dici», precisò Falcón.

«Lei poteva fare quello che voleva, questo volevo dire.»

«Allora che cosa intendevi dicendo ‘ci picchiava’?»

«Picchiava me e i miei amici», rispose Salvador, scrollando le spalle di scatto. «Era così a quel tempo.»

«Che cosa dicevano i genitori dei tuoi amici del fatto che tuo padre li picchiasse?»

«Lui diceva sempre che non avrebbe fatto sapere a nessuno quanto erano stati cattivi, perciò i miei amici non dicevano nulla ai genitori.»

Falcón lanciò uno sguardo a Cristina Ferrera, che inarcò le sopracciglia e guardò Salvador. La fronte del ragazzo era imperlata di sudore, nonostante l’aria condizionata.

«Quando ti sei fatto l’ultima volta?» gli domandò Falcón.

«Sono a posto.»

«Ho una brutta notizia da darti, ti farà stare male.»

«Non può farmi stare male più di così.»

«Tuo zio Pablo è morto sabato mattina, si è suicidato.»

Cristina Ferrera accese una sigaretta e gliela offrì, ma Salvador si piegò in avanti, appoggiando la fronte sul bordo del tavolo, le spalle scosse come da un brivido. Dopo un momento si raddrizzò e si asciugò con la mano le lacrime silenziose che gli scorrevano lungo le guance. Cristina Ferrera gli porse la sigaretta e il ragazzo aspirò una boccata, inghiottendo il fumo.

«Te lo chiedo di nuovo: avevi un buon rapporto con tuo zio Pablo?»

Questa volta Salvador annuì.

«Quanto spesso lo vedevi?»

«Qualche volta al mese. Avevamo fatto un patto. Lui mi avrebbe dato i soldi per l’eroina, se avessi tenuto sotto controllo l’abitudine. Non voleva che rubassi e finissi di nuovo in carcere.»

«Quanto tempo è andato avanti il patto?»

«Tre anni, dopo che sono uscito di prigione e prima che mi rimettessero dentro.»

«Sei stato condannato per spaccio, non è vero?»

«Sì, ma non spacciavo, mi hanno solo beccato con troppa roba addosso. Per questo mi hanno dato solo quattro anni.»

«Pablo era rimasto deluso da te?»

«L’unica volta che si era arrabbiato con me era stata quando avevo rubato un pezzo della sua collezione, solo un disegno, uno scarabocchio su un foglio di carta. L’avevo venduto per ventimila pesetas di roba. Pablo aveva detto che ne valeva trecentomila.»

«Era molto arrabbiato?»

«Era furioso. Però non mi aveva picchiato, sa, eppure, secondo i criteri di mio padre avrebbe avuto il sacrosanto diritto di scuoiarmi vivo.»

«È stato allora che avete fatto quell’accordo?»

«Solo dopo che si era calmato e aveva riavuto il disegno.»

«Vedevi spesso Sebastián in quel periodo?»

«Lo vedevo parecchio dopo che aveva cominciato a frequentare le Belle Arti. Poi andavo da lui solo dopo che avevo saputo dell’appartamentino che Pablo gli aveva comprato in Jesus del Gran Poder. Ci andavo per non stare in strada quando mi facevo. Pablo l’aveva scoperto e aveva aggiunto una clausola al nostro patto: non avrei dovuto più vedere Sebastián fino a quando non fossi stato pulito. Pablo aveva detto che era in uno stato di fragilità e non voleva avere anche il problema della droga oltre al resto.»

«Hai mantenuto la promessa?»

«A Sebastián non è mai interessata la droga, aveva altri sistemi per chiudere fuori il mondo.»

«Per esempio?»

«Lo chiamava ‘ritirarsi nella bellezza e nell’innocenza’. Nel suo appartamento aveva una stanza insonorizzata e senza finestre. Io la usavo per farmi di eroina. Aveva dipinto sul soffitto un sacco di punti luminosi, era come essere avvolti in una notte vellutata. Sebastián se ne stava là ad ascoltare musica e i nastri con le poesie lette da lui.»

«Quando si era fatto quella stanza?»

«Subito, appena Pablo gli ha comprato l’appartamento… cinque o sei anni fa.»

«Perché glielo aveva comprato?»

«Trovavano difficile vivere insieme. Litigavano di continuo. Alla fine avevano smesso addirittura di parlarsi.»

«Pablo aveva mai picchiato Sebastián?»

«Non mi risulta.»

«E tuo padre?»

Silenzio.

«Intendo dire quando Sebastián viveva con voi», precisò Falcón.

Pareva che Salvador avesse difficoltà a respirare. Cominciò a iperventilare. Cristina Ferrera si portò dietro di lui e lo calmò posandogli le mani sulle spalle.

«Ti piacerebbe aiutare Sebastián?» gli domandò Falcón.

Salvador fece segno di sì.

«Non devi vergognarti di niente qui, tutto quello che dirai sarà usato solo per aiutare Sebastián.»

«Ma qui c’è qualcosa di cui vergognarsi», disse il ragazzo all’improvviso, livido in faccia, battendosi il pugno sul petto.

«Non siamo qui per giudicarti, questo non è un processo su questioni morali», intervenne Cristina Ferrera. «Quando si è giovani ci capitano delle cose e non c’è modo di…»

«A te che cosa è capitato, eh?» esclamò Salvador, scostandosi bruscamente. «Che cazzo ti è capitato? Tu sei una poliziotta del cazzo, a te non è capitato niente, non sai niente di quello che succede là fuori, vieni da un mondo tutto perbenino, lo sento dall’odore che hai, di sapone. Tu esci da quel mondo sicuro e agiti un pochino la superficie di quello dove viviamo noi, arresti qualcuno per un crimine da niente e non hai idea di che cosa sia vivere dall’altra parte, non ne hai la minima idea!»

La ragazza fece un passo indietro e in un primo momento Falcón pensò che fosse rimasta scioccata, ma Cristina Ferrera stava semplicemente riaffermando la sua presenza, gli stava dicendo qualcosa col suo silenzio mentre Salvador non poteva vederla: l’atmosfera nella stanza degli interrogatori era più tesa che se si fosse spogliata nuda.