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«Per via del mio aspetto e del lavoro che faccio, tu credi che non mi sia mai capitato niente?» disse alla fine.

«Coraggio, allora», la incitò Salvador, «dimmi che cosa ti è successo, piccola poliziotta.»

Silenzio mentre Cristina Ferrera valutava la situazione.

«Non sarei tenuta a dirtelo e non gradisco particolarmente che il mio superiore lo sappia, ma te lo dirò, perché tu hai bisogno di sapere che le cose di cui ci si vergogna capitano anche agli altri, perfino alle giovani poliziotte, e se ne può parlare senza che gli altri ci giudichino. Mi stai ascoltando, Salvador?»

I loro sguardi si incontrarono e Salvador annuì.

«Prima di entrare nella polizia stavo per farmi suora. L’Inspector Jefe questo lo sa e sa anche che ho conosciuto un uomo e sono rimasta incinta. Perciò non sono diventata suora e mi sono sposata. Ma c’è qualcosa che il mio superiore non sa, una cosa di cui mi vergogno molto e dirla davanti a lui mi costerà enormemente.»

Nessuna reazione da parte di Salvador. Il silenzio nella stanza era fragoroso. Cristina Ferrera trasse un profondo respiro. Falcón non era certo di voler stare ad ascoltare, ma era troppo tardi ormai, la ragazza era decisa ad andare avanti.

«Io sono di Cadice, una città di mare con gente piuttosto pericolosa. Io vivevo con mia madre, che non sapeva del mio incontro con quell’uomo. Ero arrivata al punto in cui avevo deciso di dire tutto alle suore, ma prima volevo parlare con l’uomo che amavo. Ero vergine allora, perché credevo nella santità del matrimonio. Quella sera, mentre stavo andando all’appartamento del mio innamorato, sono stata aggredita da due uomini che mi hanno violentata. È accaduto tutto molto in fretta. Non ho opposto resistenza, ero fragile in modo patetico nelle loro mani. In dieci minuti hanno fatto tutto quello che hanno voluto e mi hanno lasciata lì completamente insozzata. Sono tornata barcollando da mia madre. Dormiva già. Ho fatto la doccia e mi sono messa a letto, ero a pezzi, tremavo tutta. Mi sono svegliata sperando che fosse stato un brutto sogno, ma avevo male dappertutto e mi sentivo morire dalla vergogna. Una settimana dopo, quando non sentivo più male, sono andata a letto con l’uomo che amavo e il giorno dopo ho detto alle suore che me ne sarei andata. A tutt’oggi non sono del tutto sicura di chi sia il padre del mio primo figlio.»

Arretrò finché non ebbe incontrato il sedile della sedia e vi si lasciò cadere di peso, tanto da farla dondolare. Pareva sfinita. Gli occhi di Salvador, fino a quel momento fissi in quelli di lei, si abbassarono sulla sigaretta che stringeva tra le dita tremanti.

«La ragione per cui non vedo più mio padre è che lo odio», disse. «Lo odio di un odio così potente che, se lo vedessi, commetterei certamente un grave atto di violenza. Lo odio perché è un traditore, ha tradito la fiducia più grande che ci possa essere, quella tra un genitore e un figlio. Mi picchiava perché fossi sempre spaventato, perché non mi passasse nemmeno per la testa di raccontare a qualcuno cosa mi faceva. Mi picchiava perché sapeva che quelle botte sarebbero diventate leggendarie nel vicinato e così tutti i bambini avrebbero avuto paura di lui. E quando venivano a casa nostra, era così gentile con loro che gli lasciavano fare tutto quello che voleva, ma non hanno mai osato parlare. Quei due uomini l’hanno violentata. Mio padre mi ha violentato fino a quando ho avuto dodici anni. Poi ha smesso. Avevo pensato che il fumo mi avrebbe aiutato a non pensarci più. Mi avrebbe fatto dimenticare la mia infanzia, mi avrebbe aiutato a liberarmi di lui e a vivere la mia vita. E forse avrei anche potuto farcela. Ma poi lo zio Pablo portò da noi Sebastián. E questa è la mia vergogna. Per questo sono come sono. Perché non dissi mai nulla mentre mio padre faceva a Sebastián quello che aveva fatto a me. Avrei dovuto… avrei dovuto difenderlo, avrei dovuto essere per lui, come avete detto voi, un fratello maggiore. Ma non lo sono mai stato, sono stato un vigliacco e ho assistito alla sua rovina.»

Dopo qualche minuto la vita reale tornò a insinuarsi nella stanza. Ronzio di una lampadina, ticchettio del registratore.

«Quando è stata l’ultima volta che hai visto tuo zio Pablo?» domandò Falcón.

«L’ho visto venerdì mattina, solo una mezz’ora. Mi ha dato un po’ di soldi, abbiamo parlato. Mi ha chiesto se sapessi perché Sebastián aveva fatto quello che aveva fatto. Io sapevo a che cosa stava mirando, che cosa voleva da me. Ma non sono stato capace di parlargli come ho fatto con voi, non sono riuscito a confessare che avevo mancato in modo così grave con il padre di Sebastián, con mio zio, che mi aveva aiutato tanto. Credo che lo avesse sempre sospettato, ma non riuscisse a credere una cosa simile di suo fratello. Voleva da me una conferma e io avrei dovuto essere in grado di dargliela, ma non l’ho fatto. Alla fine della conversazione mi ha abbracciato e mi ha baciato sulla testa. Non lo faceva da quando ero piccolo. Io ho pianto sulla sua camicia, poi siamo andati insieme fino alla porta e lui mi ha dato un colpetto sulla guancia con la sua mano massiccia e mi ha detto: ‘Non giudicare tuo padre troppo severamente, ha avuto una vita dura, quando eravamo bambini si è sempre preso tutte le botte che sarebbero dovute toccare anche a me. Tutte quante. Era un duro, povero bastardo. Sopportava tutto in silenzio’.»

«Sai perché Sebastián ha fatto quello che ha fatto?» domandò Falcón.

«Non vedevo più Sebastián. Il patto, ricorda? Non volevo romperlo. Quando qualcuno si fida di te, si cerca di non tradirlo, no?»

«Sei rimasto sorpreso dal crimine di Sebastián?»

«Non riuscivo a crederci. Non riuscivo a capire che cosa mai fosse successo nella sua mente da quando avevo smesso di vederlo. Era una cosa che contrastava con tutto quello che conoscevo di lui.»

«Altre due richieste», disse Falcón, spegnendo il registratore, «e poi abbiamo finito. Ho pregato una psicoterapeuta di parlare con Sebastián, per cercare di sbloccarlo. Sarebbe di aiuto se potessi farle ascoltare questa registrazione. Sarà l’unica ad ascoltarla. Forse vorrà parlare con te o chiederti di aiutare Sebastián in qualche modo.»

«Nessun problema.»

«L’altra richiesta è più difficile», continuò Falcón. «Tuo padre ha fatto alcune cose molto brutte…»

«No», lo interruppe Salvador, il viso duro come legno ora, «questo non può chiedermelo.»

Tornando al Polígono San Pablo, Falcón, seduto con Salvador sul sedile posteriore dell’auto, si accordò con lui su come mettersi in contatto nel caso che Alicia avesse bisogno del suo aiuto. Gli disse inoltre che Pablo gli aveva lasciato qualcosa nel testamento e di parlare con Ranz Costa.

Lo lasciarono alla periferia del barrio. Cristina Ferrera lo baciò sulle guance. Falcón si spostò sul sedile anteriore e insieme seguirono con lo sguardo il giovane allontanarsi con passo malfermo, un laccio delle scarpe allentato che gli batteva contro il polpaccio magro e pieno di croste.

«Non era necessario che lo facesse», disse Falcón mentre Cristina Ferrera faceva manovra.

«Che cosa? Baciarlo? Era il minimo che si meritasse.»

«Volevo dire che non era necessario raccontare la sua storia per farlo parlare. Farsi suora, rispondere a una vocazione come quella, immagino che sia un processo… di confessione e purificazione davanti a Dio. Anche il lavoro nella polizia è una missione, ma non c’è nessun Dio al quale ci si debba confessare.»

«Un Inspector Jefe è un personaggio molto in alto», sorrise Cristina Ferrera. «E, comunque, ho fatto pratica per la confessione vera. Devo ancora dirlo a mio marito.»

24

Lunedì 29 luglio 2002

Falcón si svegliò dalla siesta e fermò la sveglia, restando sdraiato a braccia spalancate nella stanza in penombra, ansimando come se fosse appena riemerso da un lago profondo, con i polmoni sul punto di scoppiare. Qualcosa aveva preso forma nella sua mente, ciò che prima era stata una vaga antipatia nei confronti di Ignacio Ortega si era trasformato in una specie di massa solida, una massa che voleva far rinchiudere per un tempo lunghissimo, il più lungo possibile il molestatore di bambini. Falcón si godeva la sua rabbia come Cristina Ferrera si era goduta la sua dopo essere entrata nella polizia, quando girava per le vie di Cadice sperando di trovare i due bruti che l’avevano stuprata.