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«Vorrei che accertasse dove si trovava esattamente Ignacio Ortega la notte in cui è stato assassinato Rafael Vega.»

«Pensavo che fosse al mare.»

«Non è entrato in scena prima della morte del fratello. Io l’avevo trovato sul cellulare, non abbiamo mai controllato con precisione i suoi movimenti.»

Falcón percorse Calle Vidrio e si fermò a un semaforo, tamburellando nervosamente sul volante, oppresso da un cupo presagio, mentre all’esterno il caldo implacabile schiacciava la città affaticata.

Sulla strada verso il carcere fece sentire ad Alicia Aguado il nastro del colloquio con Salvador. Durò per tutto il tragitto. Ascoltarono fino alla fine, restando in silenzio per qualche momento quando il colloquio registrato ebbe termine.

«Gli ho chiesto se fosse disposto a testimoniare contro suo padre», disse Falcón dopo un po’. «Ha rifiutato.»

«Quelli come Ignacio Ortega conservano un potere tremendo sulle loro vittime e le vittime non perdono mai la paura che hanno di chi le ha molestate», spiegò Alicia Aguado, scendendo dalla macchina.

Si incamminarono verso l’ingresso, Alicia al braccio di Falcón.

«Ho parlato con un mio amico che lavora nel carcere», disse la donna. «Fa la valutazione dei detenuti mentalmente disturbati, ma non era presente quando Sebastián ha chiesto di essere messo in isolamento. Però lo aveva saputo. Non aveva riscontrato nessun segno di comportamento squilibrato, Sebastián gli era parso intelligente, cordiale e il suo atteggiamento era stato completamente positivo… il che, mi rendo conto, in pratica non significa nulla. Ma ha detto qualcosa di interessante. Tutti quanti hanno pensato che Sebastián fosse non solo contento di essere dove era, ma anche sollevato.»

«Per non dover stare insieme con altri detenuti?»

«Non si sa, ha detto il mio amico. Era sollevato, questo sì. E, a proposito, vorrei parlare con Sebastián da sola, ma se ci fosse una stanza dove fosse possibile osservarci senza essere visti, mi piacerebbe che lei assistesse alla seduta.»

Il direttore venne loro incontro e organizzò il colloquio in una delle celle «di sicurezza», dove si tenevano in osservazione i detenuti considerati potenzialmente pericolosi per se stessi. Nella stanza erano a disposizione televisione a circuito chiuso e registratore. Furono portate due sedie che vennero sistemate l’una accanto all’altra, ma in senso opposto, in modo da ricostruire il divano a esse dello studio della psicoterapeuta. Alicia sedette rivolta verso la porta e Sebastián, che era stato scortato nella cella, sedette rivolto verso la parete. La porta, chiusa, aveva però un grande pannello di osservazione rinforzato davanti al quale si sistemò Falcón.

Alicia Aguado cominciò spiegando il suo metodo. Sebastián guardava il suo profilo, ascoltando ciò che la psicologa diceva con l’intensità di un amante, poi si tirò su la manica e Alicia gli prese il polso nella mano. Con la punta di un dito Sebastián le accarezzò le unghie.

«Sono contento di vederla», disse, «ma non so bene che cosa voglia fare.»

«Non è insolito che i detenuti siano sottoposti a una valutazione psicologica dopo aver ricevuto notizie particolarmente disturbanti.»

«Non credo di aver dato motivo di preoccupazione. Sono stato molto disturbato, è vero, ma ora sono calmo.»

«È stata una reazione veramente forte e tu sei un detenuto in isolamento. Le autorità si preoccupano dei possibili effetti dello stress, delle eventuali reazioni a questo e delle ripercussioni sulla mente del detenuto.»

«Come è diventata cieca?» domandò Sebastián. «Non credo che lo sia dalla nascita, vero?»

«No. Ho una patologia che si chiama retinite pigmentosa.»

«Alle Belle Arti conoscevo una ragazza che ne soffriva. Dipingeva, dipingeva come una matta… per usare tutti i colori prima di perdere la vista, perché dopo avrebbe dovuto limitarsi alla monocromia. Mi piace l’idea, tutti i colori ammassati nei primi anni di vita, prima di semplificare tutto quanto col passare degli anni.»

«Ti interessi ancora di pittura?»

«Non per dipingere. Mi piace guardarla.»

«Ho saputo che eri molto bravo.»

«Da chi?»

«Da tuo zio.» Alicia aggrottò la fronte, spostando le dita sul polso del ragazzo.

«Mio zio non capisce niente di arte, senso estetico zero. Se davvero pensasse che sono bravo, dovrei preoccuparmi. È il genere di persona che ha i leoni di cemento sui pilastri del cancello e alle pareti orrendi paesaggi a pastello. Gli piace spendere per costosissimi sistemi stereo, ma non ha nessun gusto per la musica, crede che Julio Iglesias debba essere fatto santo e che Placido Domingo dovrebbe imparare qualche canzone decente. Ha un orecchio così fine che riesce a percepire il più microscopico difetto delle casse, ma non distingue nemmeno una nota.» Sebastián parlava senza distogliere lo sguardo da Alicia Aguado nemmeno per un istante. «Mi piacerebbe sapere qual è il suo nome di battesimo, dottoressa Aguado.»

«Alicia.»

«Com’è stare sempre al buio, Alicia? Forse non mi dispiacerebbe. Avevo una stanza dove non arrivava luce né rumore, e me ne stavo sdraiato sul letto con una mascherina sugli occhi. Era di velluto all’interno, sugli occhi era morbida e calda come un gatto. Ma com’è, quando non si ha scelta, vivere al buio senza mai poter vedere la luce? Sì, credo che a me piacerebbe.»

«E perché?» gli domandò Alicia. «Rende la vita molto difficile.»

«No, no, Alicia, non sono d’accordo. Al contrario, semplifica le cose. Noi siamo bombardati da troppe immagini e idee e parole e pensieri e gusti e oggetti. Togli uno dei sensi più importanti e pensa a quanto tempo ci resterebbe, potremmo concentrarci sui suoni, toccare gli oggetti sarebbe emozionante, perché le dita non saprebbero che cosa aspettarsi. Il gusto sarebbe un’avventura, solo l’olfatto ci rivelerebbe l’aroma delizioso del cibo. Io ti invidio, Alicia, perché puoi riscoprire la vita in tutta la sua ricchezza.»

«Come puoi invidiarmi dopo quanto hai fatto a te stesso?»

«Che cosa ho fatto a me stesso?»

«Hai chiuso fuori il mondo, hai deciso di non volere nulla della vita e da tutte le sue ricchezze.»

«Davvero si preoccupano per me, dopo la morte di mio padre?»

«Io mi preoccupo per te.»

«Sì, è vero, lo sento. E appunto, se io fossi cieco, conoscerei la tua bellezza e la capacità di vederti non interferirebbe con la purezza di questa conoscenza.»

«Sei rimasto sconvolto dalla morte di tuo padre, eppure hai ignorato la lettera che ti ha scritto.»

«Non è insolito provare due emozioni contrastanti contemporaneamente. Io gli volevo bene e lo odiavo.»

«Perché gli volevi bene?»

«Perché aveva bisogno del mio affetto, aveva l’adorazione di tanta gente, ma quasi nessuno lo amava. Era dipendente dall’adorazione degli altri e la scambiava per amore. Quando hanno smesso di adorarlo si è sentito non amato. Per questo io gli ho voluto bene, perché aveva bisogno di essere amato.»

«E perché lo odiavi?»

«Perché non ricambiava il mio affetto. Mi abbracciava e mi baciava e poi mi metteva da parte, come un giocattolo, per andare in cerca di ciò che considerava vero amore. Faceva così perché era meno complicato. Per questo aveva i cani, Pavarotti e Callas: gli piaceva quel dare e ricevere amore senza complicazioni.»

«Abbiamo parlato con tuo cugino, Salvador.»

«Salvador», ripeté Sebastián. «Il salvatore che non può essere salvato.»

«O il salvatore che non può salvare?»

«Non capisco che cosa vuoi dire.»

«Non pensi mai a tua madre?»

«Ogni giorno.»

«E che cosa pensi di lei?»

«Penso a come non è stata capita.»

«Ma non pensi all’amore materno?»

«Ci penso, sì, ma nel ricordarlo scopro sempre che il pensiero successivo è come non sia stata capita. Nell’animo di un ragazzino rimane impresso sentire definire sua madre una puttana. Non era una puttana, amava mio padre e lo ammirava, ma lui non l’ha mai ricambiata. Girava la Spagna e il mondo per reclamare la fama e lei ha trovato altri da amare.»