«Fortunatamente no», rispose Falcón, cogliendo il lampo di orrore nell’espressione di Felipe. «Dicono che per un uomo sia il dolore che più si avvicina a quello del parto, non è così?»
«È quello che ho detto a mia moglie e lei mi ha ricordato che tutti e due i nostri bambini alla nascita pesavano quasi quattro chili, mentre un calcolo pesa circa nove grammi.»
«La comprensione scarseggia quando si tratta di dolore fisico», osservò Falcón.
«Io mi rotolavo sul pavimento del bagno come un pazzo. Qui dovrebbero esserci tracce dappertutto.»
«Impronte sulla bottiglia?»
«Una serie, molto nette e chiare… e anche questo è strano. Non me lo vedo il signor Vega che va a comprarsi quel liquido. Dovrebbe essercene dell’altro da qualche parte.»
«Deve essere stato mescolato con qualcosa di più forte o con un veleno, oppure Vega deve aver preso qualche pillola. Un semplice sturalavandini impiegherebbe un certo tempo ad agire, vero?»
«Un modo piuttosto strano per ammazzarsi, se posso dire la mia», osservò Jorge inginocchiato ai piedi del banco della cucina.
«Be’, direi che questo conferma quanto abbiamo notato tutti non appena siamo entrati», disse Falcón.
«C’era qualcosa che non quadrava», affermò Felipe.
«L’ho pensato anch’io», disse Jorge.
«Non c’è niente di concreto?» domandò Falcón.
«È sempre così con queste scene», disse Felipe, «conta quello che manca. Mi è bastata un’occhiata al pavimento per capire: no, da qui non salta fuori nulla.»
«Avete saputo del biglietto?»
«Stranissimo», commentò Jorge, «’nell’aria sottile che respirerete…’ che cosa può indicare?»
«Qualcosa di puro, direi», azzardò Falcón.
«E quella data?» domandò Jorge. «11 settembre… Qui però siamo molto lontani da New York.»
«Probabilmente stava finanziando Al-Qaeda», disse Felipe.
«Non c’è da scherzare», protestò Jorge, «tutto può succedere di questi tempi.»
«So soltanto che c’è qualcosa che non va», concluse Felipe. «Non tanto da farmi essere assolutamente sicuro che sia stato assassinato, ma abbastanza da rendermi sospettoso.»
«La posizione della bottiglia?» suggerì Falcón.
«Se lo avessi fatto io, avrei bevuto e poi l’avrei lanciata lontano», disse Jorge. «Dovrebbero esserci gocce dappertutto.»
«E invece non ce ne sono, se non nel punto in cui si trova la bottiglia, a un metro circa dal cadavere.»
«Ma qualche goccia c’è?»
«Sì, sono cadute dal collo della bottiglia.»
«E tra il cadavere e la bottiglia?»
«Non ce ne sono», rispose Felipe, «e anche questo è strano… ma non impossibile.»
«E se si fosse rotolato sul pavimento, cancellando tracce e gocce con la vestaglia?»
«Può essere», confermò Felipe poco convinto.
«Mi dia qualche congettura, Felipe. So che detesta farlo, ma lo faccia lo stesso.»
«Noi ci occupiamo soltanto di fatti», disse Felipe, «perché i fatti sono le uniche cose che reggono in un’aula di tribunale. Giusto, Inspector Jefe?»
«Su, Felipe!»
«Ci provo io», intervenne Jorge rialzandosi. «Sappiamo tutti che cosa c’era e che cosa ora manca qui. Manca qualcuno. Non sappiamo che cosa abbia fatto e nemmeno se fosse coinvolto o no, sappiamo soltanto che c’era qualcun altro.»
«E così abbiamo un fantasma», disse Falcón. «Qualcuno di voi crede nei fantasmi?»
«Be’, non funzionano molto bene nelle aule di tribunale», concluse Felipe.
3
Mercoledì 24 luglio 2002
Consuelo Jiménez aprì la porta a Javier Falcón e lo precedette lungo il corridoio fino al soggiorno, una stanza a elle affacciata su un prato ben tenuto, di un verde acceso nella luce abbagliante. L’acqua nella piscina azzurra, contornata di piastrelle bianche, tremolava contro le pareti che la trattenevano, sospingendo piccoli rombi di seta verso il capanno degli attrezzi ricoperto da una buganvillea fiammeggiante.
Falcón, davanti alla grande vetrata, con le mani allacciate dietro la schiena, si sentiva compreso del suo ruolo ufficiale in modo imbarazzante. Consuelo, in una gonna di seta color panna e una camicetta intonata, si accomodò sul divano. Erano tutti e due tesi, ma curiosamente a loro agio.
«Le piace la buganvillea?» gli domandò Consuelo.
«Sì», rispose Falcón d’impulso, «mi dà speranza.»
«Io sto cominciando a trovarla banale.»
«Forse se ne vedono troppe, qui a Santa Clara. E incorniciata da queste finestre fa pensare a un quadro un po’ scontato.»
«Già, potrei metterci un uomo nudo che si tuffa perennemente nella piscina e chiamarlo il mio Hockney vivant», disse lei. «Posso offrirle qualcosa? Ho preparato del tè freddo.»
Falcón fece segno di sì e la seguì con lo sguardo dirigersi verso la cucina, avvertendo un fremito alla vista dei muscoli che si disegnavano nei polpacci. Si guardò intorno. A una parete un’unica grande tela di un rosso ciliegia, attraversata diagonalmente da una striscia blu scuro che si allargava a un’estremità. Sui tavoli e sul tavolino a lato del divano fotografie dei figli, da soli o in gruppo. A parte il divano blu scuro che formava un angolo retto con la elle della stanza e una poltrona non c’era molto altro. Falcón voltò le spalle al giardino minimalista, pensando che la signora Jiménez avesse accennato a Hockney perché, sotto quel sole battente, il barrio ricordava più la California che l’Andalusia.
Consuelo Jiménez gli porse il bicchiere di tè freddo e gli indicò la poltrona, sprofondandosi poi sul divano, facendo dondolare uno dei suoi sandali bassi verso di lui.
«Non sembra di essere in Spagna qui», osservò Falcón.
«Vuol dire che non siamo tutti uno addosso all’altro come in un cesto di papaveri?»
«È tranquillo.»
Rimasero in silenzio per qualche momento, nessun rumore di traffico o suono di campane, nessuno che fischiettasse o battesse le mani per la strada.
«Doppi vetri», disse Consuelo. «E io sono in mezzo alla confusione tutto il giorno nei ristoranti. Là vivo al triplo la mia vita spagnola, perciò, quando sono qui è come essere… in una vita ultraterrena. Avrei detto che fosse così anche per lei, con il lavoro che fa.»
«In questo periodo preferisco trovarmi al centro delle cose. Ho passato abbastanza tempo nel limbo.»
«Sono sicura che non si senta proprio a suo agio in quell’imponente casa di suo padre… cioè, non suo padre. Mi scusi.»
«Mi riferisco ancora a Francisco Falcón come a mio padre, è un’abitudine di quarantasette anni che non sono ancora riuscito a perdere.»
«La trovo cambiato, Inspector Jefe.»
«Mi chiami Javier.»
«Ha uno stile diverso.»
«Mi sono tagliato i capelli, ho smesso di portare giacca e cravatta. C’è stato un rilassamento dei costumi, per così dire.»
«È meno teso, meno serio.»
«Oh, lo sono sempre, ma ora ho capito che agli altri non piace, così lo nascondo. Ho imparato a mostrarmi sorridente.»
«La madre di una mia amica le aveva dato questo consiglio: ‘Continua a muoverti, continua a sorridere’. E funziona», disse Consuelo. «Viviamo in un’epoca superficiale, Javier. Quando è stata l’ultima volta che ha fatto una conversazione seria con qualcuno?»
«Ne faccio in continuazione.»
«Dico con qualcuno che non sia lei stesso.»
«Vedo una psicoterapeuta.»
«Ma certo, dopo quello che ha passato! Ma non sono conversazioni quelle, no?»
«Non proprio», ammise Falcón. «Qualche volta è pura autocommiserazione, qualche altra è come vomitare.»