«È questa la ragione per cui lo ha ucciso, Marty?» disse Falcón.
«Capisco che lei abbia bisogno di mettere tutto in bell’ordine, Inspector Jefe. Perciò mi attribuisca pure l’omicidio, se deve. Ma quello era un uomo che avrebbe comunque fatto tutto da solo.»
«E l’Agenzia?» intervenne Maddy, in tono provocatorio.
«Non lo volevano morto», rispose Marty. «Non avevano ancora scoperto quello che volevano sapere.»
«E che cos’era?» domandò Falcón.
«Non lo sapevano. Erano soltanto certi che avesse qualcosa che avrebbe potuto danneggiare loro o i loro interessi.»
«Pensi davvero che questa gente creda a tutte le tue stronzate?» La voce di Maddy era acuta, stridula. «Mio marito un agente segreto della CIA? Sei patetico, Marty Krugman, sei fottutamente patetico e lo sei sempre stato.»
«E con questo, signori», annunciò Marty, «abbiamo finito.»
Il proiettile penetrò nel torace a destra del seno sinistro della donna. Marty si lasciò scivolare sul pavimento, con la schiena appoggiata alla parete e si mise la canna della pistola in bocca. Falcón si gettò su di lui, cercando di deviare l’arma, ma era stato tutto calcolato con precisione. Marty premette il grilletto e il muro bianco si chiazzò di rosso dietro di lui.
26
Martedì 30 luglio 2002
Sollevare un lenzuolo di cotone non richiede una grande forza, ma Falcón non riuscì a trovarla, le braccia indebolite dai fallimenti della sera precedente. Era contento di aver già scritto il suo rapporto, perché in quel momento gli pareva di avere due calamari scivolosi al posto delle mani. Il Comisario Elvira aveva voluto che glielo inviasse per fax, malgrado gli avesse già fatto rapporto al telefono mentre riaccompagnava a casa Calderón.
Istantanee degli eventi della sera precedente lampeggiavano nel suo cervello. Primi piani della luce che si spegneva negli occhi di Marty Krugman, Calderón paralizzato sul divano, un’espressione di orrore sul volto mentre il sangue si spandeva sul top di seta di Maddy, un giovane poliziotto che si premeva la mano sulla bocca davanti a quel macello, García che si faceva strada nella stanza scuotendo la testa, loro tre che scendevano le scale, Calderón aggrappato al corrimano, il tiratore scelto, superfluo, seduto davanti nell’auto di García con la custodia del fucile sulle ginocchia, Calderón che riferiva a Inés parlando a monosillabi sul cellulare durante il tragitto di ritorno, i sandali con le stringhe e i tacchi vertiginosi, appuntiti di Inés ferma in piedi sotto la luce dei riflettori davanti alla casa, le braccia di Calderón lungo i fianchi, mani pesanti trenta chili l’una, mentre Inés lo avvolgeva nel suo abbraccio. I loro volti quando lui si era scostato, quello di lei con il labbro inferiore tremante, gli occhi lucidi di lacrime, quello di lui senza vita, a parte un rapido sguardo in tralice che diceva: «Tu mi hai visto, Javier Falcón, ora va’, vai via, lasciami in pace».
La distanza che sette ore di sonno profondo, anestetizzante, avevano messo tra lui e quegli eventi li aveva resi lontani come il resoconto giornalistico di un delitto avvenuto negli anni ’50. Falcón si sentiva diverso, come se un chirurgo, per errore, gli avesse asportato qualcosa che non gli aveva mai causato nessun problema, ma la cui mancanza gli avrebbe cambiato la vita.
Gli tornò in mente la conversazione con Consuelo. L’aveva chiamata stando sdraiato sul letto, solo pochi istanti prima di perdere la cognizione del tempo. L’ultimo scambio:
«È chiaro che Martin Krugman era pazzo», aveva detto lei.
«Davvero?»
Guidò fino alla Jefatura, aggrappato al volante, lo stomaco un buco nero e dolente come se avesse bevuto caffè dopo una brutta sbornia. Entrando nella sala operativa vuota, vide Ramírez in piedi davanti alla finestra. Si sporgeva dal davanzale, appoggiandosi sulle mani.
«Ho sentito del disastro di ieri sera», disse Ramírez. «Sta bene?»
Falcón fece segno di sì, più o meno.
«Elvira ha già chiamato, vuole vederla subito.»
Anche il Comisario era in piedi davanti alla finestra, le mani dietro la schiena, lo sguardo fisso su Parque de los Príncipes al di là di Calle Blas Infante. Faceva così anche il suo predecessore, Lobo: si davano l’illusione del potere contemplando una specie di loro dominio.
«Sieda, Inspector Jefe», disse, scivolando dietro la scrivania con sveltezza e accarezzandosi rapidamente i baffi tra il pollice e l’indice. «Ho letto il suo rapporto e quello del Juez Calderón, arrivato come prima cosa stamani. Sono già in contatto con il console americano che ci chiede una copia dei rapporti. Dovrebbero farsi vivi in mattinata per quella sciocchezza sulla CIA. Non vogliono che l’idea trovi qualche attenzione da parte nostra.»
«Così non attribuisce nessuna credibilità alla cosa, signore?»
«A me pare soltanto la farneticazione di una mente malata», rispose Elvira. «D’altro canto, è vero che, quando avevo sentito dire che il nostro governo aveva mandato le squadre della morte a eliminare le cellule terroristiche dell’ETA, non avevo creduto neanche a quello… non avevo potuto crederci. Perciò, ufficialmente, mi definirei scettico, anche se in privato considero la storia assolutamente fantastica.»
«Sì, era mentalmente disturbato», riconobbe Falcón, «su questo non ci sono dubbi. Ma non si può non prestare una certa attenzione a quanto ha detto. Io sono sicuro che l’FBI non lasci andare i sospetti con tanta facilità e ciò che mi ha raccontato di Reza Sangari corrisponde a quanto mi risultava. Non vedo un motivo per cui dovesse mentire sull’uccisione di quell’uomo… a meno che, nella sua confusione mentale, non credesse che quella trovata gli avrebbe restituito la moglie. Quello che ha blaterato sulla CIA… Chissà. Sono certo che sua moglie non ne ha creduto neppure una parola. Sarà interessante vedere che cosa troverà Virgilio Guzmán su Miguel Velasco.»
«Che c’entra Guzmán?»
«È cileno. Ha contatti con espatriati cileni che possono aiutarci con questo genere di materiale», spiegò Falcón. «Una cosa posso dire su quelle facce viste in sogno di cui ha parlato: una volta Pablo Ortega aveva incontrato Vega al Corte Inglés, e Vega aveva un’espressione allucinata. Immagino che avesse avuto una delle sue visioni.»
«Bisogna che stia attento con Virgilio Guzmán», raccomandò Elvira. «Si dice che non riesca più a giudicare i fatti con obiettività, sembra che veda cospirazioni dappertutto.»
«Ha chiarito l’elemento ’11 settembre’ del biglietto trovato in mano a Vega e questo ci ha aiutato a identificarlo.»
«Non era venuto da lei per il suicidio di Montes?»
«Sì. Io ero andato a parlare con Montes perché avevo trovato il nome di Eduardo Carvajal nella rubrica di Vega. In quell’occasione Montes aveva accennato al ruolo della mafia russa nel commercio sessuale e subito dopo scopro che Vega aveva a che fare con certi russi. Chiedo a Montes se ne avesse sentito parlare e Montes si toglie la vita.»
«Ha parlato di questo con Guzmán?»
«Gliene ho parlato come contesto del suicidio, ma abbiamo un accordo: non avrebbe scritto nulla su eventuali teorie, solo su fatti accertati. E fino a questo momento non abbiamo nessuna prova di un collegamento tra Montes e i russi.»
«Lei mi sta rendendo molto nervoso, Inspector Jefe. Il suicidio di Montes è una faccenda interna, per ora. Se c’è stata corruzione nelle forze di polizia, dobbiamo muoverci con estrema cautela nell’affrontare la cosa.»
«Un giornalista è stato mandato da me in quanto ispettore di polizia incaricato delle indagini. Non ho ricevuto nessuna istruzione su ciò di cui avrei potuto o non potuto parlare con lui. Ritengo che la trasparenza sia la politica migliore con un uomo della reputazione di Virgilio Guzmán. Ha letto il Diario de Sevilla di oggi?»