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Alle due del mattino spalancò gli occhi, destato da uno scatto sonoro al piano di sotto. Aspettò, ascoltando il completo silenzio di un abile ladro al lavoro. Per parecchi minuti non udì nulla, poi il cerchio di luce di una torcia elettrica avanzò nel corridoio fuori dalla camera da letto. Un ladro di prima classe, metodico, non un mariuolo da strapazzo, rumoroso, disposto a defecare sul pavimento. Il ladro entrò nella stanza da lavoro di Maddy Krugman. Si udì il rumore di una cerniera lampo che veniva fatta scorrere, poi il ladro accese il computer di Maddy.

Perfino il respiro sembra fragoroso quando un bravo ladro è al lavoro; tuttavia, mentre aspettava che il computer fosse pronto, lo sconosciuto impiegò il tempo a frugare tra le foto a stampa di Maddy e Falcón approfittò di quel fruscio per scendere dal letto, attendere che la circolazione fosse ripresa perfettamente nella mano destra, estrarre la pistola e percorrere il corridoio verso la luce che sobbalzava nella stanza.

«Sta cercando questa?» domandò, la rivoltella nel pugno.

Il ladro alzò lo sguardo dal computer il cui schermo luminoso illuminava la sua irritazione. Si raddrizzò sullo sgabello di Maddy e si passò le mani tra i capelli, con aria annoiata.

«Lei non m’interessa», disse Falcón. «Mi interessa sapere che cosa farà quando avrà trovato quello che lui vuole.»

«Lo chiamerò e ci incontreremo giù al fiume.»

«Lo chiami allora e gli dica che è stato fortunato. Si muova lentamente.»

Il ladro fece la telefonata che durò solo pochi secondi, dal momento che disse soltanto una parola: «Romany». Poi scesero insieme e il ladro si mise al volante dell’auto di Falcón per tornare in città. Parcheggiarono nel Paseo de Cristóbal Colón e discesero i gradini fino al sentiero pedonale lungo il fiume. Un uomo, là in piedi, si guardava intorno. Falcón gli giunse alle spalle uscendo dall’ombra. «Cercava questa, signor Flowers?» domandò, mostrando la stampa della foto, illuminata dalla piccola pila elettrica.

Flowers annuì, esaminando l’immagine. «Credo che dovremmo metterci a sedere», disse.

Il ladro scappò via, correndo su per i gradini. Flowers restituì la foto. Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto.

«Mi scuso per averla sottovalutata, Inspector Jefe», disse alla fine, asciugandosi la fronte e la faccia. «Sono arrivato qui da Madrid dieci mesi fa. I madrileños hanno un’idea piuttosto confusa dei sivigliani. Avrei dovuto agire con maggiore sottigliezza.»

«Dieci mesi fa?»

«Dopo lo scorso settembre ci stiamo interessando più attivamente ai nostri amici nordafricani e al modo in cui arrivano in Europa.»

«Ma certo. E cosa c’entrava Marty Krugman in tutto questo?»

«Non c’entrava», rispose Flowers. «L’affare Vega era collaterale, anche se ci siamo presi un bello spavento quando abbiamo saputo del biglietto trovato nella sua mano. Poi abbiamo scoperto da dove veniva.»

«E cioè?»

«Era un graffito sul muro di una cella nella Villa Grimaldi, dove si torturavano i prigionieri a Santiago, in Cile, opera di un americano, un certo Todd Kravitz, rinchiuso là per un mese nel 1974 prima di essere fatto ‘scomparire.’ L’iscrizione intera diceva così: Saremo nell’aria sottile che respirerete dall’11 settembre fino alla fine del tempo. Abbastanza poetica da restargli impressa e perseguitarlo a trent’anni di distanza.»

«Aveva accennato al suo medico di avere problemi di sonnambulismo», disse Falcón, «ma non di scrittura inconscia.»

«Effetto della tensione nella psiche di un uomo che non capisce di essere colpevole», suggerì Flowers.

«Parliamo di Marty Krugman», riprese Falcón. «Perché non cominciamo da ciò che faceva e per chi lo faceva?»

«Un argomento difficile da affrontare con lei.»

«Non siamo in America, signor Flowers. Non ho addosso un microfono. Il mio unico interesse come Inspector Jefe del Grupo de Homicidios è scoprire chi abbia assassinato Rafael Vega e perché.»

«Devo prendere qualche precauzione», insistette Flowers.

Falcón si alzò, Flowers lo perquisì con mani esperte, trovò immediatamente la rivoltella. Tornarono a sedersi.

«L’affare Vega non era una vera e propria operazione del governo», spiegò Flowers. «Era più che altro un problema della CIA, per chiudere dei conti in sospeso.»

«Ma c’era stata collaborazione tra l’FBI e la CIA, una collaborazione che aveva permesso a Marty Krugman di uscire indenne dall’omicidio di Reza Sangari.»

«Per istruire un processo avevano bisogno che Marty cedesse e confessasse tutto, e io le ho già parlato dei suoi viaggi in Cile negli anni ’70. Non le ho detto, però, che le autorità cilene avevano finito per arrestarlo. Aveva passato tre settimane nella London Clinic, un altro centro di tortura in Calle Almirante Barroso. In tre settimane di torture non ha fatto nessun nome e l’unica ragione per cui non ha fatto la stessa fine di Todd Kravitz è che i tempi erano ormai diversi e i difensori dei diritti umani erano molto presenti. Non era comunque un uomo da crollare per qualche interrogatorio da parte dell’FBI.»

«E così le è parso che sarebbe stato il tipo adatto a spiare qualcuno che era stato un famigerato membro di quel regime?»

«La maggior parte degli europei pensa che gli americani non conoscano l’ironia, Inspector Jefe.»

«Per questo non gli avete rivelato nulla sulla vera identità di Rafael Vega?»

«È stato uno dei motivi. D’altronde, se si deve riferire sullo stato mentale di una persona, è meglio non essere influenzati dalla sua storia personale.»

«Che cosa c’era di tanto importante nello stato mentale di Vega?»

«Era un uomo di cui avevamo perduto le tracce nel 1982, quando si era sottratto al programma di protezione dei testimoni.»

«Allora era vero che aveva testimoniato in un processo sul traffico di droga?»

«Era una verità apparente. Aveva qualche informazione pericolosa su ufficiali dell’esercito americano e su membri della CIA coinvolti in uno scambio di droga contro armi avvenuto alla fine degli anni ’70, così abbiamo fatto un accordo. Avrebbe testimoniato in un processo di comodo e noi gli avremmo dato una nuova identità e cinquantamila dollari. Prese quella e questi e sparì. Non riuscimmo più a rintracciarlo.»

«Però sapevate della moglie e della figlia?»

«Non potevamo fare altro se non tenerle d’occhio, sperando che si facesse vivo con loro. Fu molto cauto. Non tornò per le nozze della figlia, come noi credevamo, e decidemmo che doveva essere morto. Cessammo la sorveglianza, ma inviammo qualcuno al funerale della moglie.»

«Questo quando?»

«Non tanto tempo fa, più o meno tre anni… non ricordo esattamente. Ma al funerale lo ritrovammo. Aveva creduto di essere al sicuro ormai. Facemmo qualche indagine, scoprimmo che era un uomo d’affari di successo e ritenemmo di non doverci più preoccupare… fino a quando non saltò fuori il collegamento con la mafia russa, diciotto mesi fa.»