«Difficile da dire ora che l’edificio è stato completamente distrutto dal fuoco.»
«Ha avuto il rapporto di Felipe e Jorge sui reperti?»
«Non ancora. Probabilmente sono rimasti sulla sierra stanotte, stavano ancora lavorando ieri sera alle sette, quando sono venuto via. I tecnici del laboratorio staranno vagliando il primo materiale arrivato ieri sera. Spero che sia rimasta qualche impronta…»
«Ieri sera tardi ho cercato di chiamarla», disse Lobo.
«Avevo il cellulare spento», spiegò Falcón. «Stavo lavorando all’altro caso: Rafael Vega.»
«Ci sono progressi?»
Falcón riferì sul colloquio con Mark Flowers.
«Sarà bene che ne parli io stesso con il console americano», disse Lobo.
«Che ne è della sua indagine a questo punto?» domandò Elvira.
«Il Juez Calderón mi ha dato quarantotto ore. Il tempo è scaduto. Non ho né sospetti né testimoni né piste da seguire, a meno che non salti fuori il giardiniere, Sergei», rispose Falcón.
«Che mi dice di quella chiave di una cassetta di sicurezza che avete trovato in casa di Vega?» chiese Elvira.
«Appartiene a una cassetta a nome di Emilio Cruz al Banco Banesto. Il Juez Calderón non ha ancora avuto il tempo di farci avere un mandato di perquisizione.»
«Informateci quando lo avrete», raccomandò Elvira.
«Potrebbe anche doversi accontentare del fatto che Rafael Vega fosse un mascalzone che ha punito se stesso o ha avuto quello che si meritava», suggerì Lobo.
«Mi aspetto che il Juez Calderón chiuda il caso quando lo vedrò in mattinata», convenne Falcón. «In quanto a collegare Ignacio Ortega con la finca, ci resta un’ultima possibilità con gli scheletri trovati sepolti nella proprietà.»
«Nessuna idea di che cosa sia successo?»
«In un angolo di una cella, accanto al letto, ho trovato un graffito in caratteri cirillici sulla parete. Lo sto facendo tradurre. Sospetto che abbia qualcosa a che fare con la grande macchia al centro del pavimento, che non ho visto finché la cella non è stata vuotata completamente. Sembrerebbe una macchia di sangue. Stanno esaminando proprio adesso un frammento prelevato dal pavimento. Nel materasso, in quella stessa cella, ho trovato un pezzo di vetro. Presumo che ve ne fosse un altro, usato dagli occupanti della cella per tagliarsi le vene dei polsi. Sospetto che si tratti di resti di suicidi.
«Del caso è incaricato un Juez de Instruccion di là, ma suggerirei di averne uno anche qui, dato che qui saranno esaminati tutti gli elementi di prova e qui speriamo di ottenere la condanna di Ignacio Ortega.»
«La cosa è all’esame del Juez Decano di Siviglia in questo momento», disse Elvira. «Come intende muoversi, Inspector Jefe?»
«La mossa ovvia è stabilire un collegamento tra Ignacio Ortega e la finca, interrogando almeno uno degli uomini ripresi dalla telecamera. Una volta che sia stato confermato il suo ruolo centrale nel giro di pedofili possiamo incriminarlo e procedere nella direzione dei mafiosi russi, Vladimir Ivanov e Mikhail Zelenov», rispose Falcón. «Mi rendo conto che l’ultimo dato in questa bruttissima equazione è il più difficile da portare alla luce.»
Il volto segnato di Elvira si sottrasse all’intensità dello sguardo con cui Falcón lo stava fulminando. Finirono tutti e due per osservare il colore rosso cupo della faccia furibonda di Lobo.
«Per il momento, Inspector Jefe», disse quest’ultimo, «alla luce di quanto ci ha appena detto sul coinvolgimento nel caso di uno dei nostri funzionari di alto grado, le chiederò di non fare nulla e non dire nulla.»
Nel silenzio seguito alla richiesta, che sottintendeva una pesante ammissione, le domande si affollarono nella mente di Falcón. Non riuscì a rivolgerne nemmeno una. Salutò e si avvicinò alla scrivania per prendere le cassette.
«Meglio lasciarle qui», lo fermò Lobo.
La mano di Falcón si ritirò come se fosse finita nelle fauci di un lupo.
Al piano di sotto Ramírez fumava, seduto con i piedi sulla scrivania. Si mise un dito sulle labbra, accennò con il capo alla porta dell’ufficio di Falcón e formulò silenziosamente le parole Virgilio Guzmán.
«Non posso parlare con lei in questo momento, Virgilio», disse Falcón, girando intorno alla sedia di Guzmán e sedendosi sulla poltrona girevole.
«Di che cosa?»
«Di niente.»
«E Alfonso Martínez e Enrique Altozano?»
«Uno è in terapia intensiva e l’altro è scomparso.»
«Enrique Altozano è miracolosamente riapparso stamani», annunciò Guzmán. «Non le sembra uno che abbia avuto il segnale di via libera?»
«Può sembrare qualsiasi cosa a una mente ricca di fantasia.»
«E va bene», ammise Guzmán. «Devo dirle di Miguel Velasco?»
«Lo so già.»
«Sa che cosa?»
«Che era un militare cileno…»
«Un po’ vago.»
«Mi dirà qualcosa che mi aiuti a saperne di più?»
«Le racconterò la storia in breve e poi lei deciderà», propose Guzmán. «Era nato nel 1944, figlio di un macellaio di Santiago. Aveva frequentato l’Università Cattolica ed era stato membro di Patria y Libertad. Sua madre morì nel 1967 di infarto, lui entrò nell’esercito cileno nel 1969. Dopo il colpo di Stato fu trasferito alla polizia segreta, che nel giugno del 1974 sarebbe diventata la DINA. Suo padre, che non gradiva la politica di Allende ma non approvava il colpo di Stato di Pinochet, scomparve nel 1973 e nessuno lo vide più. Durante il servizio nella DINA Miguel divenne uno dei capi inquisitori di Villa Grimaldi e amico personale del responsabile dell’organismo, il colonnello Manuel Contreras.»
«Ho saputo che il biglietto che aveva in mano quando è morto era un graffito sulla parete di una cella di Villa Grimaldi», disse Falcón. «Mi hanno detto che era conosciuto nel MIR come El Salido.»
«Forse non le hanno detto della sua attività al Venda Sexy, come chiamavano il centro di tortura al numero 3037 di Calle Irán, nel quartiere Quilín di Santiago. Era anche noto come ‘la discoteca’, per via della musica a tutto volume che ne usciva notte e giorno. Prima di essere trasferito a Villa Grimaldi Miguel Velasco ideò i metodi di tortura che vi furono poi praticati. Costringeva i familiari ad assistere e a prender parte ad atti sessuali tabù come l’incesto e la pedofilia. Talvolta incoraggiava anche i suoi colleghi torturatori a intervenire.»
«Questo aiuterebbe a spiegare… o meglio, non a spiegare, ma…»
«Mi dica.»
«Finisca la biografia, Virgilio.»
«Era eccezionale negli interrogatori e da Villa Grimaldi fu trasferito in una delle cellule operative dell’Operazione Condor, specializzata in rapimenti, interrogatori e omicidi all’estero. Nel 1978 prese servizio presso l’ambasciata cilena a Stoccolma, dove diresse le operazioni sotto copertura contro la comunità degli espatriati cileni. Verso la fine del 1979 rientrò nell’esercito e si ritiene che abbia ricevuto un addestramento dalla CIA prima di avviare una lucrosa attività ‘droga contro armi’. Il traffico venne alla luce nel 1981 e vi fu un processo, nel corso del quale Velasco testimoniò per l’accusa. Nel 1982 venne inserito in un programma di protezione dei testimoni dal quale scomparve quasi immediatamente.»
«Stoccolma?» domandò Falcón.
«Il primo ministro svedese, Olof Palme, non faceva mistero della sua avversione per il regime di Pinochet e nei giorni che seguirono l’11 settembre del ’73, l’ambasciatore svedese a Santiago, Harald Edelstam, girò per tutta la capitale offrendo asilo politico a chiunque fosse un oppositore del colpo di Stato. E così Stoccolma divenne ovviamente il centro del movimento anti-Pinochet in Europa. A Stoccolma venne insediata una cellula della DINA/CNI, per seguire le operazioni di contrabbando di droga in Europa e per spiare gli espatriati cileni.»