«Interessante… ma niente di tutto questo può aiutarmi», commentò Falcón. «Il caso sta per essere archiviato.»
«Avverto una certa delusione in lei, Javier.»
«Può avvertire quello che vuole, Virgilio, non ho niente da dirle.»
«La gente pensa che io sia di una noia insopportabile, perché un sacco di mie frasi cominciano con ‘Quando lavoravo sul caso delle squadre della morte…’», disse Guzmán.
Un grugnito di assenso di Ramírez dalla stanza accanto.
«Deve aver imparato molte cose…»
«Durante quell’indagine riuscivo sempre a trovarmi negli uffici degli investigatori in momenti cruciali», riprese Guzmán. «Lo chiami Zeitgeist o percezione dell’inconscio collettivo, se vuole. Ci crede a questo genere di stronzate, Javier?»
«Sì.»
«Ha cominciato a parlare a monosillabi, Javier. È uno dei primi segni.»
«Di che cosa?»
«Del fatto che non ho perso il mio tempismo», rispose Guzmán. «Che cosa crede che sia l’inconscio collettivo?»
«Non sono dell’umore adatto, Virgilio.»
«Ho già sentito queste parole, ma dove?»
«Nel suo letto!» gridò Ramírez dalla sala operativa.
«Ci provi, Javier.»
«Non arriverà a niente con le chiacchiere», disse Falcón, spingendo verso di lui un biglietto con il suo indirizzo di casa e l’indicazione di un’ora: 22.00.
«Sa perché ho lasciato Madrid?» riprese Guzmán, ignorando il biglietto. «Mi ci hanno costretto. Se lo domanda a qualcuno le diranno che avevo cominciato a vivere in una sala degli specchi, non sapevo più che cosa fosse o non fosse reale. Ero diventato paranoico. Ma in realtà mi hanno costretto a partire perché ero diventato un fanatico e lo ero diventato perché i servizi di cui mi occupavo mi facevano schiumare dalla rabbia. Non riuscivo a controllarla. Insomma ero diventato un giornalista della peggiore specie possibile: il giornalista emotivo.»
«Nemmeno nella polizia permettiamo che ci succeda questo… altrimenti daremmo i numeri tutti quanti».
«È una malattia incurabile», ammise Guzmán. «Ora lo so, perché quando ho letto che cosa faceva Velasco nel Venda Sexy, mi sono ritrovato a sentire la stessa rabbia furibonda. Non solo torturava le sue vittime, ma le contagiava con la sua spaventosa corruzione. E so anche di aver ricominciato a pensare: ecco cos’era Pinochet. Ecco cosa pensava del suo prossimo. E perché Pinochet era al potere? Perché lo avevano voluto Nixon e Kissinger, avevano preferito qualcuno che approvava le scosse elettriche ai genitali, lo stupro delle donne, la violenza sui bambini a… a che cosa? A un piccolo marxista, grassottello e occhialuto che avrebbe reso la vita più difficile ai ricchi. Ora, lei… tu, Javier, comprendi il mio problema. Sono diventato come mi definivano i miei capi: il peggior nemico di me stesso. Non ci è consentito di emozionarci, noi dobbiamo solo riferire i fatti. Ma, capisci, è proprio dalla mia capacità di emozionarmi che nasce il mio fiuto, un fiuto che non ha fallito nemmeno ora, perché so che a portarmi qui stamani è stata la rabbia che ho provato quando ho scoperto in che cosa fosse specializzato Miguel Velasco. E mi ha portato qui, perché io voglio che il mio naso sia ben ficcato nella porta dell’ufficio insabbiamento generale quando ci verrà sbattuta sul muso!»
Guzmán prese il biglietto, scostò la sedia con un calcio e uscì a precipizio dalla stanza.
Il vano della porta fu occupato dalla mole di Ramírez, che contemplò la scia di vapori lasciata da Guzmán nella sala operativa.
«Finirà per farsi male, se continua così», disse Ramírez. «Ha ragione lui?»
«Mi ha visto tornare con qualcosa in mano?» domandò in risposta Falcón, allargando le dita per mostrare che non aveva più le cassette.
«Lobo è una brava persona», ribatté Ramírez, puntandogli contro un ditone. «Non ci mollerà.»
«Lobo è una brava persona in una posizione diversa dalla nostra. Non si diventa Jefe Superior de la Policía de Sevilla se la gente non ti vuole a quel posto. Deve subire molte pressioni politiche e si ritrova con un gran brutto affare in casa sua, regalo di Alberto Montes.»
«E i resti di quei due ragazzini sulla Sierra de Aracena? Sono stati visti, tutti sanno del ritrovamento, nessuno può nascondere quel genere di cose.»
«Se si trattasse di bambini del posto, allora certamente no. Ma di chi si tratta? Sono morti almeno da un anno. L’unico elemento di prova che abbiamo trovato nella casa è la cassetta e, come Lobo mi ha fatto notare, non possiamo nemmeno dimostrare che le riprese siano state fatte alla finca. L’unica possibilità che ci resta è interrogare le persone che compaiono nel video, se ci permetteranno di interrogarle.»
Ramírez si avvicinò alla finestra e posò il palmo delle mani sul vetro.
«Prima abbiamo dovuto stare a sentire la storia di Nadia Kouzmikheva senza far nulla, ora dobbiamo vedere quei cabrones cavarsela senza nemmeno un graffio. È così?»
«Non c’è niente di dimostrabile.»
«Abbiamo la cassetta», insistette Ramírez.
«Dopo ciò che ha fatto Montes dobbiamo essere molto cauti con quella cassetta», spiegò Falcón. «Non si può trattarla con leggerezza. E adesso me ne vado.»
«Dove va?»
«A fare qualcosa che spero mi farà sentire meglio.»
Uscendo dall’ufficio si scontrò con Cristina Ferrera, che era stata a vedere la traduttrice a proposito dell’iscrizione in russo scoperta sulla parete della finca.
«Lasci la traduzione sulla mia scrivania, ora non mi va proprio di leggerla», le disse Falcón.
Segui il lungofiume e l’Avenida del Torneo e, dove la strada si allontanava dal Guadalquivir verso La Macarena, svoltò a destra e parcheggiò vicino all’Alameda, incamminandosi poi lungo Calle Jesus del Gran Poder. Era quello il quartiere dove aveva abitato Pablo Ortega. Cercava una casa in Calle Lumbreras appartenuta ai genitori del bambino, Manolo López, la vittima nel caso di Sebastián Ortega. Non aveva telefonato per avvertirli, pensando che i López non avrebbero gradito una nuova intrusione, specialmente stando a quanto aveva saputo delle condizioni di salute del padre.
Camminò tra gli odori di olio e di aglio provenienti dalle cucine fino alla casa dove vivevano i genitori del bambino, una palazzina dall’aspetto trascurato e suonò il campanello. Venne ad aprire la signora López, che fissò sgranando gli occhi il tesserino di Falcón, poco propensa a farlo entrare, ma priva della sicurezza necessaria per dirgli di lasciarli in pace. L’appartamento era piccolo, senz’aria e caldissimo. La signora López lo fece accomodare a un tavolo con un centrino di pizzo e una ciotola di fiori di plastica e andò a chiamare il marito. La stanza era un trionfo di Mariolatria, con Vergini appese alle pareti, confinate sugli scaffali di libri e benedicenti pile di riviste. In una nicchia era accesa una candela.
Come se fosse stato una mucca bisognosa di essere munta, la signora López guidò nel soggiorno il marito, probabilmente non ancora cinquantenne, ma incerto sui piedi, cosa che lo faceva sembrare molto più vecchio, e lo aiutò a sedersi. Un braccio dell’uomo pareva morto, pendeva inerte al suo fianco. Con l’altra mano, tremante, il signor López prese il tesserino di Falcón.
«Homicidios?» disse.
«Non in questa occasione», lo rassicurò Falcón. «Volevo parlarvi del sequestro di vostro figlio.»
«Non posso parlarne», disse l’uomo e immediatamente fece per alzarsi.
La moglie lo aiutò a lasciare la stanza mentre Falcón osservava le manovre complicate con crescente desolazione.
«Non riesce a parlarne», spiegò la moglie, tornando in soggiorno. «Non è più lo stesso da quando… da quando…»
«Dal rapimento di Manolo?»
«No, no… è stato dopo. È stato dopo il processo che ha perso il lavoro. Le gambe hanno cominciato a non funzionare più bene, si sentiva un formicolio nelle vene, vacillava, gli tremava una mano, poi un braccio si è paralizzato. Ora non fa più niente tutto il giorno, si sposta da qui alla camera da letto e… basta.»