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Di nuovo silenzio. Alzando lo sguardo, Cristina Ferrera vide che i due uomini avevano gli occhi fissi su di lei.

«Non parlate sul serio, vero?» disse.

«E poi lo arresterei per omicidio», concluse Ramírez.

«Non riesco a credere che possiate anche solo chiedermi di immaginare una cosa del genere», disse Cristina Ferrera. «Se davvero fate sul serio, allora non avete bisogno di una guida morale, avete bisogno di un trapianto totale di coscienza.»

Falcón rise e Ramírez si unì a lui sghignazzando rumorosamente. Il sollievo si diffuse sul delicato viso di Cristina.

«Be’, nessuno potrà dire che non abbiamo esaminato tutte le possibilità», disse Falcón.

«Torno al computer», annunciò la ragazza, uscendo e richiudendo la porta dietro di sé.

«Prima parlava sul serio?» domandò Ramírez sporgendosi sulla scrivania.

Non un muscolo si mosse sulla faccia di Falcón.

«Joder!» esclamò Ramírez. «Sarebbe stata davvero bella!»

Squillò il telefono, così forte da far sobbalzare i due uomini. Falcón si portò il ricevitore all’orecchio e ascoltò attentamente mentre Ramírez rigirava tra le dita una sigaretta spenta.

«Ha preso una decisione molto coraggiosa, signor López», disse Falcón riattaccando.

«Una buona notizia finalmente?» Ramírez si mise la sigaretta tra le labbra.

«Era il padre del bambino che, stando all’accusa, sarebbe stato violentato da Sebastián Ortega. Il bambino, Manolo, sta tornando a Siviglia e verrà dritto qui alla Jefatura per dare una versione diversa e assolutamente vera dei fatti.»

«Non sarà un gran bel regalo di matrimonio per il Juez Calderón.»

«Ma sa che cosa significa, non è vero, José Luis?»

La sigaretta mai accesa cadde in grembo a Ramírez.

Il telefono squillò di nuovo. Era il Juez Calderón, per confermare che era pronto il mandato di perquisizione per la cassetta di sicurezza a nome di Emilio Cruz presso il Banco Banesto. Falcón prese la chiave e i due uomini uscirono diretti all’Edificio de los Juzgados, dopo che Falcón ebbe informato Cristina che Manolo López sarebbe venuto con sua madre per deporre nuovamente e che lei avrebbe dovuto leggersi il fascicolo di Ortega, preparare le domande e interrogare il bambino.

Nell’Edificio de los Juzgados ritirarono il mandato dalla segretaria di Calderón e risalirono in macchina alla volta del Banco Banesto, dove chiesero di parlare con il direttore. Mostrarono i documenti e furono accompagnati nel caveau, Falcón firmò e il direttore, una donna, precedette i due poliziotti fino alle cassette di sicurezza, inserì la sua chiave, la girò una volta e li lasciò soli. Falcón usò la sua chiave e insieme tirarono fuori la cassetta di acciaio inossidabile e la posarono sul tavolo al centro della stanza.

In cima alle carte contenute nella cassetta videro un vecchio passaporto spagnolo e qualche biglietto di viaggio, un passaporto rilasciato nel 1984, con la fotografia di Rafael Vega, ma con il nome di Oscar Marcos. I biglietti erano tenuti insieme da una graffetta metallica ed erano in ordine di data. Il primo viaggio era stato effettuato da Siviglia a Madrid il 15 gennaio 1986, con ritorno a Siviglia il 19 gennaio. Quello successivo era del 15 febbraio 1986, in treno da Siviglia a Madrid, Barcellona e infine Parigi. Il 17 febbraio era stato emesso un biglietto da Parigi a Francoforte e Amburgo, il 19 febbraio da Amburgo a Copenaghen e il 24 febbraio da Copenaghen a Stoccolma. Il viaggio di ritorno era cominciato il primo marzo, in aereo da Oslo a Londra. Tre giorni a Londra e poi in volo a Madrid e da lì in treno fino a Siviglia.

«Questa roba», disse Ramírez, che stava guardando le carte sotto i biglietti, «deve essere in codice, perché sembrano lettere di un bambino al padre.»

Falcón telefonò a Virgilio Guzmán, proponendogli di vedersi subito a casa sua in Calle Bailén. Vuotarono il contenuto della cassetta di sicurezza in un grosso sacchetto di plastica, Falcón informò che la cassetta era vuota, lasciò una ricevuta e restituì la chiave. Poi si diressero verso Calle Bailén e Falcón lesse le lettere mentre aspettavano Virgilio Guzmán. Ogni lettera aveva la sua busta attaccata con una graffetta, erano state tutte impostate in America e indirizzate alla casella postale a nome di Emilio Cruz. Le lettere avevano un senso prese singolarmente, ma non nel loro insieme.

Arrivò Guzmán e sedette alla scrivania per esaminare le carte, il passaporto e i biglietti.

«Fine febbraio dell’86 a Stoccolma», disse. «Sapete che cosa era successo in quella data?»

«No.»

«Il 28 febbraio del 1986 il primo ministro svedese, Olof Palme, fu assassinato mentre usciva da un cinema con la moglie», disse Guzmán. «L’assassino non venne mai trovato.»

«E tutte quelle lettere?» domandò Ramírez.

«Conosco qualcuno che può aiutarmi a decifrarle, ma immagino che siano le istruzioni per un’ultima operazione diretta dal suo amico Manuel Contreras. Aveva la copertura perfetta, addestramento completo. Era il genere di cose che si facevano nell’ambito dell’Operazione Condor. Nessun modo di risalire fino al regime di Pinochet e finalmente una spina tolta dal fianco del presidente. Perfetto.»

«Allora perché conservare tutta questa roba?»

«Non lo so, se non, forse, perché uccidere un primo ministro di una nazione europea non è cosa da poco e Vega aveva sentito la necessità di un minimo di sicurezza nel caso le cose fossero cambiate in futuro.»

«Come ora, per esempio?» disse Falcón. «Il regime di Pinochet è caduto…»

«E Manuel Contreras è in prigione tradito dal generale, il suo vecchio amico.»

«E Vega pensa che sia arrivato il momento di pareggiare i conti? Di far vedere di che cosa fosse capace il regime di Pinochet?» ipotizzò Falcón. «Una strategia senza via di uscita. Si può mandare in carcere Pinochet, ma si mette fine anche a se stessi.»

«Ed è quello che ha fatto», affermò Guzmán. «È morto con quel biglietto nel pugno. E tu hai fatto quello che lui voleva che facessi, indagando sulla sua morte hai trovato la chiave della cassetta di sicurezza e ora il suo segreto sarà rivelato al mondo intero.»

Fotocopiarono le lettere trovate nella cassetta e Guzmán le prese per mandarle all’amico che li avrebbe aiutati a decifrarle, un ex membro della DINA che ora viveva a Madrid, rivelò il giornalista.

«Conosci il tuo nemico», disse, per spiegare quell’amicizia. «Le metto nello scanner e gliele mando per e-mail. Le leggerà come fossero un libro, avrete la risposta oggi pomeriggio.»

Falcón e Ramírez tornarono alla Jefatura in tempo per vedere la signora López e Manolo, che era già al lavoro sulla deposizione registrata in video e simpatizzava con Cristina Ferrera. All’una il bambino aveva finito: Falcón telefonò ad Alicia Aguado, le fece ascoltare la deposizione al telefono e la psicologa decise di farla ascoltare anche a Sebastián Ortega.

Cristina Ferrera uscì con una volante e perlustrò il Polígono San Pablo alla ricerca di Salvador Ortega mentre Falcón accompagnava Alicia Aguado al carcere. Mostrarono la cassetta della deposizione di Manolo a Sebastián, che crollò. Alla fine scrisse una sua deposizione di quindici pagine nella quale descriveva in dettaglio i cinque anni di abusi sessuali subiti per mano di Ignacio Ortega. Nel frattempo telefonò Cristina per dire che Salvador si trovava alla Jefatura. Falcón le inviò per fax la dichiarazione di Sebastián per farla leggere a Salvador, il quale chiese di poter vedere Sebastián.

Cristina Ferrera lo accompagnò alla prigione e i due cugini parlarono per oltre due ore. Alla fine anche Salvador accettò di scrivere una sua deposizione, dando a Falcón anche un elenco di altri sette nomi di bambini, ora adulti, che avevano sofferto per mano di suo padre.