Katherine, involontariamente, aveva fatto un passo indietro.
"È troppo grande per poterlo riscaldare, ma il tuo laboratorio è in fondo ed è praticamente un cubo di materiale termoisolante. Godrai della massima tranquillità."
Katherine aveva cercato di immaginarlo: una scatola dentro una scatola. Si era sforzata di guardare nel buio, ma non aveva visto nulla. "Quanto è lontano da qui?"
"Parecchio… Il modulo è grande più o meno come un campo da calcio e attraversarlo fa venire i brividi. Ti avverto: dentro è buio pesto."
Katherine si era affacciata oltre la soglia. "Non c’è un interruttore?"
"Il modulo 5 non è ancora collegato alla rete elettrica."
"Ma… come fa a funzionare un laboratorio senza elettricità?"
Peter aveva ammiccato. "Con una cella a combustibile a idrogeno."
Katherine era rimasta a bocca aperta. "Stai scherzando, vero?"
"Abbiamo energia sufficiente per una piccola città. E il tuo laboratorio è completamente schermato dalle radiofrequenze del resto dell’edificio. Inoltre, il modulo è rivestito di membrane fotoresistenti per proteggere dalla radiazione solare gli oggetti che vi verranno conservati. Insomma, è un ambiente isolato, energeticamente neutro."
Katherine stava cominciando ad apprezzare le qualità del modulo 5. Dal momento che il suo lavoro era in gran parte basato sulla misurazione di campi energetici sconosciuti, gli esperimenti andavano condotti in un luogo isolato e protetto da qualsiasi radiazione estranea o "rumore bianco", comprese per esempio sottili interferenze quali le "radiazioni cerebrali" o "emissioni di pensiero" generate dalle persone nei paraggi. Per questo motivo non sarebbero andati bene né un campus universitario né un laboratorio ospedaliero, mentre un magazzino deserto dell’SMSC era l’ideale.
"Andiamo a dare un’occhiata." Con un gran sorriso, Peter si era addentrato nelle tenebre. "Seguimi."
Katherine aveva esitato sulla soglia. Più di cento metri nel buio assoluto? Stava per suggerire di prendere una torcia, ma il fratello era già scomparso nell’abisso.
"Peter?" l’aveva chiamato.
"Abbi fede" le aveva risposto lui, già lontano. "Troverai la strada, fidati di me."
Scherza? si era chiesta Katherine con il batticuore, muovendo i primi passi e continuando a cercare di scrutare nel buio. Non vedo niente! La porta di acciaio aveva emesso un sibilo e all’improvviso si era chiusa alle sue spalle, lasciandola immersa nell’oscurità più totale. Non un barlume da nessuna parte. "Peter?"
Silenzio.
Troverai la strada, fidati di me.
Esitante, era andata avanti alla cieca, a piccoli passi. Abbi fede? Ma se non riusciva nemmeno a vedere a un palmo dal naso! Aveva continuato a camminare, tuttavia dopo pochi secondi era già completamente disorientata. Dove sto andando?
Tutto questo era successo tre anni prima. Ora, arrivando davanti alla stessa robusta porta di metallo, Katherine si rese conto di quanti progressi avesse compiuto da quella prima volta. Il laboratorio, soprannominato il "Cubo", era diventato per lei una seconda casa, un rifugio nelle viscere del modulo 5. Esattamente come previsto da Peter, aveva trovato la strada nel buio quella sera, e tutte le altre volte in seguito, grazie a un sistema ingegnoso che suo fratello le aveva lasciato scoprire da sola.
Ma, ancora più importante, anche l’altra previsione di Peter si era avverata e gli esperimenti di Katherine avevano prodotto risultati straordinari, soprattutto negli ultimi sei mesi, facendole fare passi avanti che avrebbero cambiato radicalmente interi paradigmi di pensiero. Lei e Peter avevano deciso di mantenere il più assoluto riserbo su tali risultati finché le loro implicazioni non fossero state più chiare. Ma Katherine sapeva che un giorno non molto lontano avrebbe pubblicato alcune delle scoperte scientifiche più rivoluzionarie nella storia dell’umanità.
Un laboratorio segreto in un museo segreto, pensò mentre inseriva la chiave magnetica nella fessura. Il tastierino si illuminò e Katherine digitò il proprio codice identificativo.
La porta di acciaio del modulo 5 si aprì con un sibilo.
L’ormai familiare vago gemito fu accompagnato dalla consueta corrente di aria fredda. Come sempre, Katherine senti che il cuore le batteva più forte.
Nessuno al mondo fa un percorso più strano di me per andare a lavorare.
Preparandosi ad affrontare il viaggio, guardò l’ora prima di tuffarsi nel buio. Era preoccupata. Dov’è Peter?
12
Il capo della polizia del Campidoglio, Trent Anderson, era responsabile della sicurezza del complesso da oltre dieci anni. Era un uomo robusto, dalle spalle larghe e dalla mascella squadrata, con i capelli rossi tagliati molto corti che gli davano un’aria militare. Portava la pistola alla cintura bene in vista, a mo’ di avvertimento per chiunque fosse così sciocco da mettere in dubbio la sua autorità.
Passava la maggior parte del tempo a coordinare un piccolo esercito di agenti da un nucleo operativo ad alta tecnologia nel seminterrato del Campidoglio. Lì, sotto la sua direzione, un gruppo di tecnici controllava i dati e i monitor dell’impianto a circuito chiuso. Un centralino telefonico permetteva di tenersi in contatto costante con il personale di sicurezza.
Quel pomeriggio era stato più tranquillo del solito, e Anderson era soddisfatto. Sperava addirittura di poter seguire la partita dei Redskins sul televisore a schermo piatto del suo ufficio. A pochi minuti dall’inizio, suonò l’interfono.
«Capo?»
Anderson gemette e, tenendo gli occhi fissi sullo schermo, premette il pulsante per rispondere. «Sì?»
«C’è un problema alla Rotonda. Ho già mandato a chiamare alcuni colleghi, ma è meglio che venga a dare un’occhiata anche lei.»
«Arrivo.» Anderson entrò nel centro nevralgico della sicurezza, una sala funzionale modernissima, piena di schermi. «Che cosa vedi?»
Il tecnico di turno stava richiamando un filmato digitale sul monitor. «Telecamera est della galleria della Rotonda. Meno di un minuto fa.» Fece partire la registrazione.
Anderson guardò da dietro le spalle del tecnico.
La Rotonda era semideserta, con pochi turisti sparsi qua e là. L’occhio allenato di Anderson si posò subito sull’unica persona da sola, che si muoveva più veloce delle altre. Era un uomo con la testa rasata e un cappotto militare verde. Aveva un braccio al collo e zoppicava leggermente. Era curvo e parlava al cellulare.
I suoi passi riecheggiavano, secchi. Arrivato al centro della Rotonda, l’uomo dalla testa rasata si fermava di colpo, smetteva di parlare e si inginocchiava, come per allacciarsi una scarpa. Invece estraeva un oggetto dalla fasciatura e lo posava per terra. Poi si rialzava e, sempre zoppicando, si avviava velocemente verso l’uscita est.
Anderson osservò l’oggetto che l’uomo aveva lasciato sul pavimento. Aveva una forma strana. Che cosa…? Era verticale, alto una trentina di centimetri. Anderson si avvicinò allo schermo e strizzò gli occhi. Non può essere!
Mentre l’uomo dalla testa rasata si allontanava in fretta e spariva oltre il porticato est, si udiva la voce di un bambino che diceva: "Mamma, a quel signore è caduto qualcosa". Il bambino si avviava verso l’oggetto, ma si fermava di colpo e, dopo essere rimasto immobile qualche secondo, lo indicava con il dito e lanciava un grido acutissimo.
Anderson si voltò di scatto e corse verso la porta, dando ordini a gran voce: «Contattate via radio tutte le unità! Trovate il tizio pelato con il braccio al collo e fermatelo! SUBITO!».
Uscì di corsa e salì la scala, tre gradini alla volta. Nel filmato, l’uomo dalla testa rasata si allontanava dalla Rotonda attraverso il porticato est. Da lì il percorso più breve per lasciare l’edificio era il corridoio estovest, che si trovava poco più avanti.