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Peter le aveva sorriso soddisfatto. "Un libro che spero un giorno leggerai." Tornò al frontespizio, dove un cartiglio elaborato incorniciava il titolo.

Sefer haZohar, o Il libro dello splendore.

Lei non lo aveva mai letto, ma sapeva che era il testo fondamentale dell’antica mistica ebraica, un tempo considerato depositario di segreti così potenti da poter essere letto soltanto dai rabbini più eruditi. "Mi stai dicendo che gli antichi mistici sapevano che l’universo ha dieci dimensioni?"

"Proprio così." Peter le aveva indicato la figura sulla pagina: dieci cerchi collegati fra loro, detti Sephiroth. "Naturalmente la nomenclatura è esoterica, ma i concetti sono di fisica avanzata."

Lei non sapeva cosa rispondere. "Ma… allora perché lo studiano così in pochi?"

Peter aveva sorriso. "Lo studieranno, vedrai."

"Non capisco."

"Katherine, abbiamo la fortuna di essere nati in un’epoca straordinaria. Le cose stanno per cambiare. L’umanità è alle soglie di una nuova era in cui si ricomincerà a guardare alla natura e alle tradizioni di un tempo. Si tornerà alle idee contenute in libri come lo Zohar e gli antichi testi di altre civiltà. La verità è potente come la forza di gravità ed esercita un’attrazione irresistibile. Verrà un giorno in cui la scienza moderna comincerà a studiare sul serio la sapienza degli antichi… e quel giorno l’umanità comincerà a trovare una risposta alle grandi domande che ancora le sfuggono."

Quella sera stessa Katherine si era messa a leggere con grande interesse i testi suggeriti da Peter e si era resa conto che il fratello aveva ragione. Gli antichi avevano profonde conoscenze scientifiche. Più che "scoperte", quelle della scienza moderna erano "riscoperte". A quanto pareva, l’umanità aveva colto molto presto la vera natura dell’universo, ma poi l’aveva abbandonata e dimenticata.

La fisica moderna può aiutarci a ritrovare il passato! Lei aveva fatto di quella ricerca la sua missione: usare gli strumenti della scienza avanzata per riscoprire la sapienza perduta degli antichi. Non perseguiva quegli studi solo per spirito di competizione accademica. A motivarla era il convincimento che il mondo avesse bisogno di capire quelle cose, oggi più che mai.

In un angolo del laboratorio, il camice bianco di Peter era appeso a un gancio accanto al suo. Istintivamente, prese il cellulare per controllare se c’erano messaggi. Niente. Una voce le riecheggiò nella mente. Quello che suo fratello ritiene sia nascosto a Washington… è possibile trovarlo. A volte, quando una leggenda perdura nei secoli, un motivo c’è.

«No» disse ad alta voce. «Non può essere vero.»

A volte le leggende sono solo… leggende.

16

Il responsabile della sicurezza Trent Anderson tornò di corsa verso la Rotonda del Campidoglio, infuriato. Un agente aveva appena trovato una benda e un cappotto militare in una nicchia vicino al porticato est.

Quel bastardo è uscito come se niente fosse!

Anderson aveva già dato ordine di controllare i filmati delle telecamere esterne, ma anche nel caso in cui i suoi uomini avessero trovato qualcosa, a quel punto lo sconosciuto sarebbe stato già lontano.

In quel momento, entrando nella Rotonda per valutare la gravità del problema, vide che la situazione era relativamente sotto controllo. Le quattro entrate della sala erano state chiuse nel modo più discreto possibile, ovvero con un cordone di velluto, un agente dall’aria dispiaciuta e un cartello che diceva

SALA TEMPORANEAMENTE INAGIBILE PER PULIZIE. I testimoni, una

decina di persone, erano stati radunati in un gruppo sul lato est della sala e gli agenti di sicurezza stavano requisendo cellulari e macchine fotografiche: l’ultima cosa di cui Anderson aveva bisogno era che uno dei presenti inviasse alla CNN una foto scattata con il telefonino.

Uno dei testimoni, un uomo alto dai capelli scuri con una giacca di tweed, stava cercando di allontanarsi dal gruppo per venire da lui. Discuteva animatamente con gli agenti.

«Gli parlerò tra un attimo» disse Anderson. «Per il momento, non lasciate andare via nessuno finché non avremo chiarito la faccenda.»

A quel punto si volto a guardare la mano, ancora al centro della sala. Santo cielo! In quindici anni di servizio in Campidoglio di cose strane ne aveva viste tante, ma come quella mai.

Speriamo che la Scientifica si sbrighi e mi tolga di torno al più presto questo orrore.

Si avvicinò e vide che il polso insanguinato era stato infilzato su un piedistallo di legno in modo che la mano rimanesse in posizione verticale. Il legno non viene rilevato dai metal detector. L’unico oggetto metallico era un grosso anello d’oro. Anderson immaginò che fosse stato controllato all’ingresso con un rilevatore manuale, o che il sospetto lo avesse sfilato dalla mano morta fingendo che fosse la propria.

Si chinò per esaminarla. A occhio, doveva appartenere a un uomo sulla sessantina. L’anello aveva un sigillo elaborato con un uccello a due teste e il numero 33. Anderson non l’aveva mai visto prima. Ad attirare la sua attenzione furono soprattutto i due piccoli tatuaggi sul pollice e sull’indice.

Una macabra sceneggiata.

«Capo?» Un agente arrivò di corsa con un telefono in mano. «C’è una chiamata personale per lei. Passata dal centralino della sicurezza.»

Anderson lo guardò come se fosse impazzito. «Non vedi che sono occupato?» disse a denti stretti.

L’agente, pallidissimo, coprì il telefono con la mano e mormorò: «È la CIA».

Anderson trasalì. La CIA è già al corrente?

«L’Office of Security.»

Anderson si irrigidì. Oh, merda! Guardò diffidente il telefono.

Nel vasto mare delle agenzie di intelligence di Washington, l’Office of Security della CIA era una specie di triangolo delle Bermuda, una regione infida e misteriosa da cui tutti coloro che ne conoscevano l’esistenza si tenevano il più possibile alla larga. L’ O S era stato istituito in seno alla CIA con un mandato apparentemente autolesionista, ovvero spiare la CI A stessa, ed esercitava le funzioni di un ufficio Affari interni, sorvegliando i dipendenti dell’Agenzia per scoprire o prevenire comportamenti illeciti quali appropriazione indebita, vendita di informazioni riservate, furto di tecnologie segrete e ricorso a metodi di tortura, per citarne solo alcuni.

L’os spia le spie.

Avendo carta bianca in tutte le indagini su questioni attinenti alla sicurezza nazionale, era molto potente e arrivava molto lontano. Anderson non aveva la minima idea del motivo per cui fosse interessato alla mano mozza, né di come avesse fatto a venirne a conoscenza così in fretta. Ma era risaputo che l’os aveva occhi ovunque. Per quel che ne sapeva lui, non era escluso che ricevesse direttamente le immagini dell’impianto a circuito chiuso del Campidoglio. L’incidente di quella sera non sembrava rientrare nelle competenze dell’OS, ma era difficile pensare che quella chiamata fosse solo una coincidenza.

«Capo?» L’agente gli porgeva il telefono come se fosse una patata bollente. «Non può non rispondere. È…» Fece una pausa, quindi sillabò senza emettere suono: "SA-TO".

Anderson aggrottò la fronte. Stai scherzando? Si accorse di avere le mani sudate. Sato in persona?

Il capo supremo dell’Office of Security, Inoue Sato, era una figura leggendaria nel mondo dell’intelligence. La sua vita era iniziata nel campo di internamento per giapponesi di Manzanar, in California, poco dopo Pearl Harbor, e Sato faceva parte della schiera di sopravvissuti temprati dalle avversità che non avrebbero mai potuto dimenticare gli orrori della guerra, o i rischi derivanti dalle carenze dei servizi segreti militari. Raggiunti i massimi livelli della carriera nel settore dell’intelligence, aveva dimostrato un irriducibile amor di patria e una terrificante implacabilità verso tutti i nemici dell’America. Benché si facesse vedere molto di rado, era un personaggio temutissimo e nuotava nelle acque profonde della CIA come un leviatano che emerge in superficie soltanto per divorare la preda.