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Anderson aveva avuto un solo incontro faccia a faccia con Inoue Sato, ma il ricordo dei suoi gelidi occhi neri gli bastava a rallegrarsi di dover affrontare quella conversazione a distanza.

Prese il telefono e, nel tono più cordiale che gli riuscì, disse: «Direttore, sono Anderson. Che cosa posso…?».

«Devo parlare con una persona che si trova lì in Campidoglio.» La voce del direttore dell’OS era inconfondibile: sembrava ghiaia che gratti su una lavagna. In seguito a un intervento per un cancro alla gola, Inoue Sato aveva una voce terrificante e un’altrettanto spaventosa cicatrice sul collo. «Me lo passi subito.»

Tutto qui? Devo soltanto far chiamare una persona? A quel punto Anderson sperò che la telefonata di Sato fosse arrivata in quel momento per pura coincidenza. «Di chi si tratta?»

«Si chiama Robert Langdon. Credo si trovi lì da voi in questo preciso momento.»

Langdon? Quel nome gli suonava vagamente familiare, ma non ricordava dove l’avesse già sentito. Si chiese se Sato sapesse della mano. «Al momento mi trovo nella Rotonda» disse. «Ci sono dei turisti e… un attimo solo.» Abbassò il telefono e chiese ad alta voce al gruppo di visitatori: «Scusate, qualcuno di voi si chiama Langdon?».

Dopo un attimo di silenzio, una voce profonda rispose: «Sì, io. Sono Robert Langdon».

Sato sa tutto. Anderson allungò il collo per vedere chi aveva parlato.

Era lo stesso tizio che poco prima aveva cercato di allontanarsi dal gruppo. Sembrava sconvolto. Oltretutto gli pareva di avere già visto quel volto da qualche parte. Sollevò di nuovo il telefono e disse: «Sì, il signor Langdon è qui».

«Me lo passi» ordinò Sato in tono brusco.

Anderson tirò un sospiro di sollievo. Meglio che se la prenda con lui che con me. «Un attimo solo.» Fece cenno a Langdon di avvicinarsi.

In quel momento si rese conto del motivo per cui quel nome gli era parso familiare. Ho appena letto un articolo su di lui. Che cosa diavolo ci fa qui?

A parte l’alta statura e il fisico atletico, Anderson non ravvisò in Langdon nulla della grinta che si sarebbe aspettato in un uomo sopravvissuto a un’esplosione in Vaticano e a una rocambolesca caccia all’uomo a Parigi. E questo è sfuggito alla polizia francese… in mocassini? Anderson lo avrebbe visto meglio seduto a leggere Dostoevskij davanti al caminetto di una biblioteca universitaria della Ivy League.

«Professor Langdon?» disse andandogli incontro. «Sono Trent Anderson, il responsabile della sicurezza in Campidoglio. C’è una telefonata per lei.»

«Per me?» Langdon sgranò gli occhi azzurri, preoccupato e perplesso.

Anderson gli porse il telefono. «L’Office of Security della CIA.»

«Mai sentito nominare.»

Anderson sorrise minaccioso. «A quanto pare, loro hanno sentito nominare lei.»

Langdon accostò il telefono all’orecchio. «Pronto?»

«Robert Langdon?»

La voce gracchiante di Sato era abbastanza forte da arrivare anche a Anderson.

«Sì?»

Anderson si avvicinò per sentire meglio.

«Sono Inoue Sato, direttore dell’Office of Security. Sto gestendo una crisi e credo che lei abbia informazioni che mi potrebbero essere utili, professore.»

«Si tratta di Peter Solomon? Lei sa dove si trova?» chiese Langdon speranzoso.

Peter Solomon ? Anderson si sentì completamente tagliato fuori.

«Professore, per il momento sono io a fare le domande» ribatté Sato.

«Peter Solomon è in grave pericolo» insistette Langdon. «Uno psicopatico gli ha…»

«Mi scusi» lo interruppe bruscamente Sato.

Anderson rabbrividì. Mai contraddire un alto funzionario della CIA. Solo un civile poteva commettere un simile errore. Pensavo che Langdon fosse più furbo.

«Mi stia bene a sentire» continuò Sato. «In questo preciso momento, il paese è sull’orlo di una crisi. Mi risulta che lei abbia informazioni che possono aiutarmi a evitarla. Perciò, di nuovo, le domando: di quali informazioni è in possesso, professore?»

Langdon era completamente disorientato. «Direttore, non ho idea di cosa stia parlando. A me preme soltanto trovare Peter e…»

«Non ne ha idea?» ripetè Sato in tono di sfida.

«Nossignore, non ne ho la più pallida idea.»

Anderson trasalì. No, no. Errore gravissimo. Robert Langdon aveva appena commesso un altro passo falso con il direttore Sato che gli sarebbe costato molto caro.

Troppo tardi. Il responsabile della sicurezza sgranò gli occhi vedendo entrare a passo svelto nella Rotonda, alle spalle di Langdon, il direttore Sato in persona. Sato è qui! Anderson, con il fiato sospeso, si preparò al peggio. Langdon non sa che cosa lo aspetta.

Il direttore si avvicinava con aria torva, il telefono appoggiato all’orecchio e gli occhi neri puntati come due raggi laser su Langdon.

Langdon stringeva il telefono del responsabile della sicurezza, sempre più frustrato. «Mi dispiace, signore» disse al direttore dell’os. «Non ho il dono della telepatia. Che cosa vuole da me?»

«Che cosa voglio da lei?» La voce di Inoue Sato risuonò all’orecchio di Langdon roca e stridula come quella di un moribondo con un’infezione da streptococco alla gola.

Mentre ascoltava, Langdon si sentì battere leggermente su una spalla. Si voltò e si trovò davanti… una giapponese minuta dall’espressione furibonda, con la pelle chiazzata, i capelli radi, i denti macchiati dalla nicotina e una brutta cicatrice alla base del collo. Con la mano nodosa teneva un cellulare vicino all’orecchio e i movimenti delle sue labbra corrispondevano ai suoni emessi dalla voce rasposa che giungeva a Langdon dal telefono.

«Che cosa voglio da lei, professore?» Inoue Sato chiuse con calma il cellulare e fulminò Langdon con un’occhiata. «Tanto per cominciare, che la smetta di chiamarmi "signore".»

Langdon sgranò gli occhi, mortificato. «Signora… Mi scusi. La ricezione era pessima e io…»

«La ricezione era ottima, professore» ribatté lei. «E io non tollero i bugiardi.»

17

Il direttore Inoue Sato era un personaggio temibile: alta meno di un metro e mezzo, intrattabile, era scheletrica, con lineamenti spigolosi e una malattia della pelle, la vitiligine, che le dava l’aspetto screziato di un blocco di granito infestato dai licheni. Indossava un tailleur pantalone blu sgualcito che le pendeva addosso come un sacco informe e una camicetta bianca con il colletto sbottonato che non tentava neppure di nascondere la cicatrice. La sua unica concessione alla vanità, a quanto dicevano i suoi collaboratori, consisteva nello strapparsi i baffi.

Inoue Sato era a capo dell’Office of Security della CIA da oltre dieci anni. Aveva un quoziente di intelligenza molto più alto della media e un fiuto pressoché infallibile, e la combinazione di queste due doti la rendeva molto sicura di sé. Inoue Sato terrorizzava chiunque non fosse in grado di fare anche l’impossibile. Nemmeno la diagnosi di un aggressivo cancro alla gola l’aveva scalzata dal suo piedistallo. La lotta con la malattia le era costata un mese di lavoro, mezza laringe e un terzo del suo peso, ma Inoue Sato era tornata in ufficio come se niente fosse. Sembrava davvero indistruttibile.