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Langdon sospettava di non essere stato il primo a scambiarla per un uomo al telefono, ma lei continuava a fissarlo come se volesse incenerirlo.

«Le rinnovo le mie scuse, signora» disse. «Sono ancora disorientato: una persona che si è fatta passare per Peter Solomon mi ha attirato qui a Washington con l’inganno, stasera.» Tirò fuori dalla tasca della giacca il fax. «Mi ha spedito questo. Ho annotato il numero di coda dell’aereo con cui mi ha mandato a prendere, quindi forse se chiama la FAA e si fa dare…»

Con un gesto fulmineo, Sato gli strappò di mano il foglio e se lo mise in tasca senza nemmeno guardarlo. «Professore, le ricordo che sono io a dirigere le indagini. Finché non mi avrà detto quello che voglio sapere da lei, le consiglio di parlare solo se interrogato.»

Poi si voltò di scatto verso Trent Anderson.

«Lei» lo apostrofò avvicinandosi decisamente troppo e guardandolo dal basso con i suoi occhietti furibondi. «Le dispiacerebbe spiegarmi che cosa diavolo sta succedendo? L’agente all’ingresso est mi ha detto che avete trovato una mano mozza per terra. È vero?»

Anderson si fece da parte e le mostrò l’oggetto al centro della sala. «Sì, signora, è successo pochi minuti fa.»

Inoue Sato guardò la mano come se fosse uno straccio dimenticato lì per caso. «Però lei non mi ha detto niente quando ci siamo parlati.»

«Pensavo… pensavo che lo sapesse già.»

«Non mi racconti balle.»

Anderson si sentì mortificato, ma reagì con voce sicura: «Signora, la situazione è sotto controllo».

«Ne dubito» ribatté lei in tono altrettanto sicuro.

«Sta per arrivare una squadra della Scientifica. Chiunque sia stato, avrà lasciato delle impronte…»

Sato pareva scettica. «Secondo me, una persona abbastanza in gamba da superare i vostri controlli di sicurezza e portare qui dentro una mano mozza è anche in grado di non lasciare impronte.»

«Può darsi, ma è mia responsabilità controllare.»

«Non si preoccupi: da questo momento lei è sollevato da qualsiasi responsabilità. Assumo io il comando.»

Anderson si irrigidì. «Questa cosa non è di competenza dell’OS, o sbaglio?»

«Sbaglia. È una questione di sicurezza nazionale.»

La mano di Peter una questione di sicurezza nazionale? Langdon assisteva esterrefatto a quel battibecco. Aveva la sensazione che la priorità di Inoue Sato non fosse trovare al più presto Peter. Il direttore dell’OS sembrava avere tutt’altre preoccupazioni.

Anche Anderson aveva l’aria perplessa. «Sicurezza nazionale? Con tutto il rispetto, signora…»

«A quanto mi risulta, il mio grado è superiore al suo, quindi le consiglio di eseguire gli ordini senza discutere.»

Anderson annuì e mandò giù il rospo. «Ma non dovremmo almeno prendere le impronte della mano mozza per accertare che sia di Peter Solomon?»

«Posso confermarvelo io» disse Langdon, che ne era tragicamente certo. «Riconosco l’anello, e anche la mano.» Dopo una pausa, aggiunse: «I tatuaggi, però, sono nuovi. Glieli hanno fatti di recente».

«Come, scusi?» Sato parve esitare per la prima volta da quando era arrivata. «La mano è tatuata?»

Langdon annuì. «Sul pollice c’è una corona e sull’indice una stella.»

Sato tirò fuori un paio di occhiali, andò verso la mano e cominciò a girarci intorno come uno squalo con la preda.

«Le altre tre dita non si vedono» aggiunse Langdon «ma sono sicuro che sono tatuate anche quelle.»

Sato, incuriosita, fece un cenno a Anderson. «Per piacere, guardi le altre tre dita e ci dica se sono tatuate.»

Anderson si accovacciò vicino alla mano, stando attento a non toccarla, avvicinò la guancia a terra e sbirciò da sotto. «È così, signora. Ci sono tatuaggi anche sui polpastrelli delle altre dita, ma non riesco a vedere bene che cosa…»

«Un sole, una lanterna e una chiave» disse Langdon con voce piatta.

Sato si voltò e lo squadrò con i piccoli occhi neri. «E lei come fa a saperlo con tanta precisione?»

Langdon la fissò, altrettanto implacabile. «La mano che reca questi segni sulla punta delle dita è un simbolo molto antico Si chiama "Mano dei Misteri".»

Anderson si alzò di scatto. «Questa roba ha un nome?»

«E’ uno dei simboli più oscuri del mondo antico.»

Sato inclinò la testa. «E si può sapere che cosa diavolo ci fa una Mano dei Misteri nel bel mezzo del Campidoglio?»

Langdon avrebbe tanto voluto risvegliarsi da quell’incubo. «Tradizionalmente, signora, la Mano dei Misteri aveva la funzione di porgere un invito.»

«Un invito? E a fare che?» chiese imperiosa Sato.

Langdon osservò i simboli tatuati sulle dita del suo amico. «Per secoli, la Mano dei Misteri è stata usata per trasmettere una chiamata mistica. In pratica, si tratta di un invito a ricevere conoscenze arcane… segreti esoterici noti solo a pochi eletti.»

Sato incrociò le braccia e lo fissò con lo sguardo torvo. «Be’, professore, per essere uno che sostiene di non sapere nemmeno come mai è qui, mi sembra piuttosto bene informato.»

18

Seguendo la solita routine, appena arrivata in laboratorio Katherine Solomon indossò il camice bianco per cominciare quella che suo fratello chiamava scherzosamente la "ronda".

Come una madre ansiosa che va a controllare il proprio bambino che dorme, si affacciò sulla porta del locale di alimentazione. La cella a combustibile a idrogeno funzionava regolarmente e le bombole di riserva erano al sicuro al loro posto, sull’apposita rastrelliera.

Proseguì nel corridoio per andare all’archivio dati. Le due unità olografiche di backup ronzavano come sempre, nei rispettivi contenitori isotermici. Tutte le mie ricerche, pensò Katherine guardando oltre il vetro infrangibile di sette centimetri di spessore. I drive di memoria olografica, a differenza dei loro antenati grossi come frigoriferi, avevano le linee eleganti di componenti di impianti stereo, sorretti ciascuno dalla sua colonna.

Quelli del laboratorio, sincronizzati e identici, fungevano da backup, su cui Katherine salvava i dati in doppia copia. Generalmente i protocolli di backup prevedevano l’esistenza di un sistema secondario remoto, in caso di terremoti, incendi o furti, ma Katherine e Peter avevano deciso insieme di dare la priorità alla segretezza: se i dati fossero usciti dal laboratorio per essere conservati su un server remoto, loro non avrebbero più avuto la certezza che rimanessero riservati.

Dopo essersi assicurata che tutto funzionava a dovere, Katherine tornò nel corridoio. Appena ebbe svoltato l’angolo, però, vide qualcosa di inaspettato dall’altra parte del laboratorio. Com’è possibile? Le apparecchiature riflettevano un lieve bagliore. Si affrettò ad andare a controllare, sorpresa nel vedere che dalla parete di plexiglas della sala controllo filtrava della luce.

È arrivato. Attraversò velocemente il laboratorio, giunse alla sala controllo e spalancò la porta. «Peter!» esclamò entrando di corsa.

La donna seduta al terminale fece un salto. «Oh, mio Dio, Katherine! Che spavento!»

Trish Dunne, l’unica altra persona al mondo autorizzata a entrare lì dentro, era un’analista specializzata in metasistemi e lavorava di rado durante il fine settimana. Ventisei anni, capelli rossi e qualche chilo di troppo, Trish era un genio del data modeling e aveva firmato un accordo di segretezza degno del KGB. Quella sera stava analizzando dati sulla parete al plasma della sala controllo, un enorme display a schermo piatto che sembrava uscito dalla NASA

«Scusa» disse Trish. «Non mi ero accorta che eri già qui. Stavo cercando di finire prima che arrivaste tu e tuo fratello.»