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John Sladek

Il sistema riproduttivo

Prologo

L’avete vista in «Heidi»?

Immaginiamo che sia ancora il 19…, quell’anno fatidico, e immaginiamo che voi stiate passando da Millford, Utah, quel fatidico crocevia della storia. La popolazione, vi informa un cartello tutto ammaccato e sporcato dagli uccelli, è di «3810 abitanti e sta ancora aumentando! Luogo di nascita di Shelley B…»

Luogo di nascita di Shelley chissachi, Millford si trova a metà strada fra Las Vegas, Nevada, e il North American Air Defense Command (NORAD) rintanato nelle viscere d’una montagna del Colorado. Il nome, «Millford,» significa «Guado del Mulino,» ma è onorario; non c’è mai stato un corso d’acqua, in questa parte del deserto, né un mulino, né qualcosa che un mulino potesse eventualmente macinare. Forse il nome fu trovato per ironia, o per un augurio. In fondo, i fondatori di altri centri nel deserto hanno dato loro nomi graziosi, nella speranza che, grazie alla magia contagiosa, ne seguisse una piacevole realtà.

Millford non è graziosa, è vecchia e malconcia. C’è ben poco che la distingua da Eden Acres, Greenville o Paradise. L’emporio degli alimentari, come quello degli altri paesi appena nominati, è dipinto a scacchi bianchi e rossi. Lungo la sua strada principale sorgono facciate familiari: The Eateria; The Idle Hour; Marv’s Eat-Gas; The Dew Drop Inn Motel.

Voi, turisti di passaggio (diciamo che siete un generale d’aviazione del NORAD in viaggio per andare a divorziare), siete molto più interessati al vostro odometro che a quello stabilimento d’imbottigliamento della Coca Cola o quello che è sulla destra. Notate appena una bruttissima fabbrica di mattoni invetriati, con una grande vetrata all’angolo arrotondato. «Società Giocattoli Wompler. Fabbricanti di…»

Il cartello sciupato è ormai alle vostre spalle, perduto per sempre. C’è un solo cartello che vi interessa: «Fine del limite di velocità.» Ah, eccolo. E ce n’è un altro: «State lasciando Millford, Utah, Luogo di nascita di Shelley Belle. Arrivederci presto!» Voi premete con forza il piede sull’acceleratore. Lo sferragliare delle punterie chiede:

Chi diavolo è

Shelley Belle?

Voi siate irritati con Millford. Siete irritati con la vostra scarsa memoria. Siete stufi di tutte le brutte, piccole cittadine del deserto e dei loro cartelli presuntuosi: «La più grande piccola città dell’Universo!» Siete accaldati e stufi e stanchi, e superate un po’ il limite di velocità, mentre fuggite dal luogo in cui si sta facendo la storia del mondo…

Capitolo Primo

I Wompler al lavoro

«Ella era un’immagine di delizia, quando brillò la prima volta alla mia vista. … Ed ora scorgo con occhio imparziale la pulsazione stessa della macchina.»
WORDSWORTH

«Scusate il ritardo, gente.» Louie Guthridge Wompler, vicepresidente incaricato delle pubbliche relazioni, entrò nella sala delle riunioni saltellando sulle suole a carro armato. Sorrise agli altri tre membri del consiglio di amministrazione, ma quelli non parvero neanche accorgersene.

«Dov’eri?» chiese il presidente, Grandison Wompler. Le sue guance cascanti tremavano per l’irritazione. «Dobbiamo discutere di cose importanti.»

«Scusami, Papà.» Louie si buttò su una sedia a destra del padre. «Stavo lavorando un po’ sui miei muscoli ‘lati’. Sai, latissimus dorsi? È qui.» E si indicò l’ascella con un dito tozzo.

«Stiamo sciogliendo la società, figliolo.»

«Vedi, sto trovando una definizione molto pulita… Sciogliere la società? Ma perché, Papà? Perché?»

Grandison batté sul tavolo il mazzuolo con un rumore che sembrò un colpo di pistola. «La seduta è aperta,» borbottò.

«Cos’è ’sta storia, Papà?» insistette Louie, irraggiando suo padre con un accattivante sorriso alla Harold Teen.

«Figliolo,» cominciò il vecchio, poi si interruppe. Stava cercando un’espressione che Louie fosse in grado di afferrare. Benché avesse quarantun anni, qualche volta sembrava che fosse uscito da poco dall’adolescenza. Anzi adesso, mentre si baloccava con un estensore a molla e un barattolo di compresse di Proteine Sooper, Louie sembrava addirittura puerile… e suo padre aggrottò la fronte a quel pensiero.

I due uomini non sembravano neanche padre e figlio. Il presidente era alto, abbronzatissimo e robusto, e verso la mezza età aveva messo su un po’ di carne, acquisendo uno spessore dignitoso. Il volto era massiccio e serio, con la mascella austera e le folte sopracciglia scure. Ma intorno alla sua bocca c’erano le rughe lasciate dal riso, e gli occhi neri erano festonati di grinze miti. Senza un filo grigio tra i capelli, Grandison («Granny») Wompler dimostrava dieci anni di meno dei suoi sessantacinque.

Louie, che alcuni chiamavano «Louie il Womp,» era pallido e porcino. Riusciva in qualche modo a sembrare una copia ad acquerello di suo padre, uscita di bucato. I capelli biondi, vagamente ondulati, gli occhi lattiginosi e la carnagione che sembrava pasta per fare il pane gli avrebbero dato un’aria esaurita, se non fosse stato per la sua mole immensa. C’era qualcosa di atletico nelle spalle curve di Louie e nel suo ventre tondo; sembrava un uomo che avesse ricevuto parecchi colpi in faccia. Il naso era appiattito, e tutti i suoi lineamenti erano un po’ spianati, un po’ confusi.

Non portava cravatta, e sotto la stoffa bianca della camicia si scorgeva in trasparenza la scritta «CLUB DELLE PROTEINE SOOPER.» Il suo sorriso, mentre attendeva che il padre proseguisse, era puro e insignificante come una serie di intaccature su vetro, e altrettanto costante.

«Figliolo, non so come spiegartelo…»

«Lascia provare a me, Granny,» Gowan Dill, l’ilare e novantenne direttore della produzione, si rivolse a Louie e disse: «Tuo padre vuol dire che abbiamo agganciato il nostro carro a una stella cadente.»

«Il solito declino estivo, ecco tutto,» fece lagnoso Louie, sempre sorridendo. «Sotto Natale le vendite riprenderanno.»

«Per Natale saremo tutti falliti!» ringhiò suo padre. «Falliti!»

«Declino estivo o…»

«No, figliolo. La verità è che siamo finiti. Nessuno vuole più le Bambole che Camminano di Wompler.»

Le mani nodose di Grandison tremarono leggermente nel sollevare una bambola dal suo involucro di carta velina e nel metterla in piedi. La bambola cominciò a camminare sul piano lucido della tavola, miagolando a ogni passo. Un carillon, dentro la testa, suonava sommessamente la Marcia dei soldatini di legno.

Nessuno sapeva che cosa fosse capitato in realtà a Shelley Belle. Era stata avvolta nella carta velina, per così dire, e messa in disparte, insieme ad altri e più felici ricordi degli Anni Trenta (Al Jolson, i film di Bank Nite, la roadster Cord, l’orchestra di Paul Whiteman), come se fosse stata davvero una solare bambola dai capelli d’oro. Come nessuno voleva ricordare i veri Anni Trenta (le file per le minestre, le file per il pane, le file per i posti di lavoro), nessuno voleva ricordare la vera storia di Shelley (cresciuta, sposata, divorziata, risposata, tentativo di suicidio, particine nei film di Alfred Hitchcock). Sarebbe rimasta sempre come l’avevano vista per la prima volta, nel 1935, agitare i riccioli e sorridere con grande sfoggio di fossette a W.C. Fields o a Wallace Beery. In tutta l’America, le massaie tenevano ben strette le razioni gratuite e restavano a bocca aperta. Mentre quella bimbetta di cinque anni scrollava le spalle e ballava il tip-tap al suono della Marcia dei soldatini di legno, loro facevano schioccare la lingua sbalordite. Non era meravigliosa? Non era il tesoro più grazioso e adorabile e delizioso che esistesse? Non era una bambola viva?