«È la fine! Rovinato! Chiodi, seghe, catene, tutto sparito…»
«La fine? Su su! Non è questo il modo di parlare, Milo! Ammetto che sul momento la situazione sembra molto brutta, ma non abbiamo ancora il quadro generale, vero? Voglio dire, dobbiamo combattere questi cosi, non starcene qui a piangere. Dobbiamo…»
Ma Milo non lo ascoltava: ricadde lungo disteso e riprese a piagnucolare. «Chiodi, viti, bulloni, seghe, chiavi, martelli, tenaglie, asce, lime, fucili, coltelli, ami, doppiette, pistole, accette, coltelli, bombe, pugnali, morte…»
«Su, su,» disse Beele, sgusciando fuori dalla porta. «Si faccia coraggio. Sono sicuro che stanno per arrivare i rinforzi.»
Il problema, rifletté, era interessante. Nessuno sapeva con che nome chiamare gli invasori. Lui avrebbe potuto inventarne uno, aggiungere un neologismo al dizionario. Per esempio, UNCROB (Unidentified Creeping o Crawling Objects: Oggetti Striscianti Non Identificati).
Archiviò mentalmente quel nome insieme al pezzo su Milo.
ATTACCO SFERRATO ALLA FERRAMENTA
Le avide macchine divorano chiodi e scalpelli
Davanti a lui, una bambinetta piangeva seduta sul marciapiedi. Un cagnaccio cattivo, gli disse, l’aveva morsicata al popò. E poi aveva perso la sua bimba, cioè la sua bambola radiocomandata a sette transistor: gliel’aveva portata via un gigante grande e grosso. Beele le disse di non piangere, perché era sicuro che stavano per arrivare i rinforzi.
Allungò il passo per tornare in ufficio. Sarebbe stata la più grande notizia mai pubblicata da un giornale:
LE SCATOLE CHE DIVORARONO ALTOONA
Persino le borchie dei blue jeans d’una bambina!
Incontrò una specie di macchina da scrivere. Era rotta e sformata, ma Beele poté ancora leggere il nome, L.C. Smith sulla piastra posteriore. Beele bestemmiò e si mise a correre. Una cassa di caratteri, che adesso era diventata qualcosa d’altro, uscì ondeggiando dal suo ufficio, lo costrinse a spostarsi sulla porta, e si avviò maestosamente lungo la strada.
Quando entrò, Beele ebbe l’impressione di sentire la stampatrice a mano che invocava aiuto. Spalancò la porta della tipografia e si precipitò dentro, ma troppo tardi! La macchina stava già assumendo la solita forma di scatola. Quando le si avvicinò, quella lanciò un ultimo clangore, si avventò verso la vetrata e piombò in strada. Cominciò a suonare l’allarme, ma venne subito soffocato.
LA STAMPATRICE RAPITA!
L’ufficio era stato ripulito completamente. Che ironia, pensò Beele. Senza rendersene conto, gli invasori meccanici avevano distrutto l’unico mezzo che poteva dar loro la fama meritata. O avevano fatto apposta? Barthemo Beele si precipitò di nuovo fuori.
Era già buio quando arrivò a una cabina telefonica che funzionava ancora, sull’autostrada. L’aprì, infilò una monetina nell’apposita fenditura, e chercò di chiamare i servizi stampa. Ma ogni volta che riusciva a ottenere la comunicazione e diceva «Chiamo da Altoo…» la comunicazione s’interrompeva, e la sua monetina cascava fuori. Beele cominciava a chiedersi se per caso era stato lui a rovinare l’apparecchio quando lì accanto si fermò una macchina della polizia, servizio stradale. Gli uomini che c’erano a bordo, però, non erano poliziotti.
Aprirono a forza la porta della cabina e lo trascinarono fuori.
«Ci dispiace di essere così bruschi con lei, signore,» disse uno, toccandosi la tesa del cappello. «Ma è in gioco la sicurezza della nazione. Lei è Beele, di Altoona? Il direttore del giornale?»
«Sì, ma…»
«Abbiamo ordini precisi di insabbiare questa faccenda, Beele. Purtroppo dovremo portarla via oppure…»
«E sta bene, uccidetemi!» disse lui. Barthemo Beele, l’intraprendente giovane direttore, piangeva. «Ormai, non ho più nulla per cui vivere. Ho perduto la mia macchina tipografica, i miei caratteri, mia moglie, la mia macchina da scrivere, tutto! Avanti, sicari prezzolati al soldo d’una burocrazia fannullona! Uccidetemi! Avete già ucciso l’unica cosa che mi stava a cuore… la mia grande notizia!»
«Volevo dire, dovremo portarla via oppure arruolarla come nostro agente. Lo facciamo spesso con i giornalisti, e poi assegnamo loro incarichi all’estero. Naturalmente, dovremo indagare meticolosamente sui suoi precedenti… ci vorrà un’ora o giù di lì. Cosa ne dice? Le piacerebbe andare in Marocco?»
Agente della CIA! Beele lo vedeva con l’occhio della mente: le palme, gli intrighi, la possibilità di spazzar via la corruzione alla fonte!
«Accetto,» disse, sorridendo tra le lacrime.
Capitolo Settimo
Le gazze di Marrakech
«E in quattro avevano un sembiante, come di una ruota in mezzo ad una ruota.»
Haroun Al Raschid faceva il difficile e fingeva di non capire cosa voleva comprare da lui Suggs.
«Questo mi mette in una situazione imbarazzante,» disse, esalando il fumo del kif dietro la mano ingioiellata. «Vede, M’sieur Suggs, ufficialmente non so nulla della missione francese in questa città. Come posso darle l’informazione che cerca? Se lei se ne servisse, la mia reputazione presso i francesi potrebbe risultarne… come dire?… offuscata. Potrei perdere amici e influenza… e per che cosa?»
«Lei ci deve aiutare,» fece torvo Suggs. «Ci deve dare almeno il nome del loro uomo. So che lo conosce. Haroun sa tutto quello che succede a Marrakech.»
Al Raschid si rilassò leggermente, arrotondando la bocca carnosa in una smorfia di modestia. «Lei mi lusinga, M’sieur.» La stoffa aderente dell’abito gli impediva di stravaccarsi sul basso divano, come sembrava avesse intenzione di fare; era con il massimo sforzo che si muoveva in qualunque direzione, persino per prendere il suo tè alla menta. «Le assicuro che vorrei aiutarla, M’sieur Suggs, come un amico aiuta l’amico. Ma… non so. Il rischio è grande.»
«Lei deve sapere qualcosa di utile.» L’uomo della CIA cercava di trattenere il respiro ogni volta che uno sbuffo di fumo di kif gli arrivava vicino, ma stavolta si sporse sopra il basso tavolo d’ottone e parlò con un sussurro concitato. «Basta che mi dica il nome di quell’uomo, ecco tutto. È per il bene del Marocco e per quello degli Sta… delle Nazioni Unite! Tutto il mondo ne trarrà beneficio.»
«Ah, ma è la stessa cosa che dice quel gentiluomo russo. Chi di voi due dice la verità?» Con uno scintillio d’astuzia negli occhi, Haroun aggiunse: «Che cosa deve credere un uomo semplice come me? Io non sono istruito. Io sono solo un povero mercante, come vede.»
L’ampio gesto della mano ingemmata indicò il pavimento a parquet, gli splendidi tappeti, le pareti a mosaico, le finestre a sesto acuto dai vetri istoriati, e i delicati candelieri simili a gioielli. La stanza era un caos di stoffe e d’altro ancora: ottone, legno, cuoio, seta, lana, argento, velluto. Oltre un’arcata marmorea, Suggs poteva scorgere il fresco giardino dove un pavone bianco passeggiava avanti e indietro tra le piante di limoni.
«Come vede, non ho l’aria condizionata. Non ho la televisione. Non ho nessuno dei lussi così comuni nel suo paese, no, neppure lo spazzolino da denti elettrico.»
Suggs si rimboccò la gellaba ed estrasse un portafoglio smilzo. «Naturalmente siamo disposti a pagare,» disse. «Qualunque cifra ragionevole.»
«Ah!» Le narici esili di Haroun esalarono due sbuffi gemelli di fumo aromatico. «Allora devo vincere i miei scrupoli di coscienza. Ecco la metà destra di una foto dell’uomo che lei cerca. Si chiama Brioche. Marcel Brioche. È pilota delle Forze Aeree francesi… e chissà che altro, eh?»