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Madge aveva l’aria di aver bevuto. Si avvicinò a passi incerti allo specchio e si esaminò gli occhi, tirando di qua e di lì la pelle delle palpebre. Quasi non si accorse che Susie aveva infilato gli stivali di feltro bianco, le aveva dato un bacio di saluto e aveva detto: «Così si fa, mammina! Piglialo a calci nel… nel sedere! Ciao!»

Presso il campus dell’University of California, a Santa Filomena, c’era una strada che ostentava quattro caffè ben frequentati, ma nessuno era popolare quanto The Blue Tit, il Capezzolo Azzurro o la Cinciallegra Azzurra, a seconda di come si preferiva interpretarlo. Per evitare fastidi con le autorità universitarie, il padrone del caffè, Kevin Mackintosh, aveva dipinto sull’insegna una bella cincia azzurra. Come avveniva in tutte le serate festive, una folla s’era riversata nel Blue Tit per ascoltare musica folk e poesia; ma quella sera era una folla cupa e depressa. Molti, come Susie e Ron, erano arrivati in motocicletta sotto l’acquerugiola, e la sala era piena di vapore e dell’odore acido della lana bagnata.

Su di un podio in fondo alla stretta sala, un poeta stava leggendo a voce alta un foglio che teneva molto vicino alla faccia. Quando lui si girò per mettersi meglio nella luce, Susie riconobbe Kevin Mackintosh.

«Tempopoesia numero quattordici,» lesse.

«Johnson nell’Omaha: sonori ticchetti dall’interno dell’orologio. Deve esserci sempre una vittima Nel passo freddo segreto Nessun altro motivo che il patriottismo e il puro disgusto. Ritorna al lavoro, senza stivali. Qui ricerca uno spirito esplosivo.»

«Cribbio!» esclamò Susie. «Gli esplosivi mi fanno venire in mente che avrei dovuto studiare per la prova di Chimica Organica di lunedì.»

«Ssst,» disse Ron. «Dopo domani non ci sarà più un altro giorno.»

«Non so neanche la nomenclatura di Ginevra, niente di niente.»

Ron sorrise. Kevin Mackintosh la guardò incredulo. «La nomenclatura di Ginevra è finita,» disse. «E anche la Convenzione di Ginevra. E anche Ginevra.»

«È la fine del mondo,» spiegò Ron.

«È vero,» disse qualcun altro. «La tromba del giudizio ha già squillato.»

«Cosa vorreste dire?» chiese Susie, con un lieve sorriso. «Non ho mica capito.»

«È la fine di tutto, pupa,» disse Ron. «Come dicono alla radio. Non hai sentito i notiziari?»

«Questa è la nostra festa della fine del mondo,» annunciò Kevin. «Portate chi volete.»

Qualcuno ridacchiò, ma il poeta non sorrideva.

«Per favore, qualcuno vuol dirmi cos’è questa storia?» chiese Susie. Pensava e pensava, ma non riusciva a ricordare cosa aveva sentito al telegiornale delle sei.

«Quella cosa ad Altoona, Nevada,» spiegò Ron, «è un missile russo, oppure l’Orrore da un Altro Mondo, oppure uno dei nostri incubi urlanti. Se è un missile dei russi, rappresaglia nostra. Poi rappresaglia loro. Eccetera, fine.

«Se è una cosa venuta dallo spazio, perché il governo insabbia tutto? Perché è qualcosa di veramente orribile, come un essere che ha inghiottito tutta la città, oppure dei mostri atomici che lanciano raggi X dappertutto. Qualcosa che noi non possiamo fermare, che finirà per vincere.

«Se è una delle nostre armi sfuggita al controllo, cosa può essere? Qualche bomba? Non è probabile, altrimenti le altre nazioni starebbero già facendo un chiasso d’inferno. Molto più probabilmente una malattia atroce… diciamo un cancro contagioso universale.»

Nella sala, tutti tacevano. Si rannicchiavano l’uno contro l’altro, nella semioscurità, attendendo la fulminea luce accecante che li illuminasse e li trasfigurasse nell’istante finale. Le azioni e le parole più importanti non avevano senso, le più banali erano cariche di significato, quasi elevate alla dignità di sacramento.

Susie si sentì venire le lacrime agli occhi. Le sembrava così ingiusto. Lei aveva diciassette anni ed era ancora vergine, e adesso era troppo tardi. Desiderava soprattutto rinunciare alla sua inutile, piccola virtù, ora che veniva la fine di Tutto, ma in un certo senso era un sacrificio troppo piccolo: e poi c’era sempre la possibilità che il mondo non finisse, e allora come avrebbe fatto a spiegarlo a Madge? All’improvviso, furiosamente, Susie provò un sentimento d’odio per la Fine del Mondo! Avrebbe voluto strapparle gli occhi!

«Ma… ma… credo che dovremmo uscire a protestare!» dichiarò alzandosi. Gli altri la fissarono, senza capire cosa intendeva dire. «Non hanno il diritto di farci una cosa simile! Non hanno il diritto di toglierci in questo modo il mondo, quei porci egoisti!»

Uno dei giovani esplose all’improvviso in una risata acuta. «E cosa credi che dovremo fare?» chiese, beffardo. «Scrivere ai nostri deputati al Congresso?»

«No,» disse Susie, seria seria. «Ma non credo che risolveremo niente a starcene qui seduti a piangere, santo cielo! Dobbiamo uscire… e protestare! Dovremmo marciare su quell’Alt… quel posto, insomma, e dire chiaro e tondo cosa ne pensiamo di loro!» Pestò sul pavimento lo stivaletto bianco. «Oppure lasceremo che ci portino via tutto

La sala era tutta un frastuono. Alcuni l’incitavano a continuare, altri riflettevano sulle sue parole. L’atteggiamento sprezzante di Susie era magnifico. Qualcuno cercò invano di far notare che la protesta contro l’inevitabile era inutile.

«Be’, certo che è inutile!» scattò Susie. «Non sono tanto scema da non capirlo! Ma è ancora più inutile starcene qui seduti… a bollire, no?»

«Credo che abbia ragione lei,» fece Ron, sogghignando. «Perché diavolo non andiamo laggiù a protestare? Sono soltanto dieci ore di macchina.»

«Protestare contro cosa?» chiese Kevin. «Contro la fine del mondo?»

«Sicuro, perché no?» fece Ron. «Come nell’Attacco degli Uomini-Fungo: tutti protestavano contro gli esperimenti pericolosi, giusto? Come in Goz, dove facevano dimostrazioni contro l’impotenza dell’esercito, vi ricordate? E nel Giorno che la Terra prese freddo…»

«Va bene, va bene, ma per che cosa stiamo protestando?» chiese Kevin. «Se posso essere così stupido.»

«Per esempio, contro l’isolamento di una città americana ad opera della CIA, e contro la violazione della libertà di parola! Venite, prepariamo un po’ di cartelli, e cerchiamo qualcuno che abbia la macchina per portarci.»

Kevin si arrese. «Lasceremo che sia la tua ragazza a dirigere lo spettacolo,» propose. «L’idea è stata sua. Ma non avrei mai pensato che avrei passato le ultime ore della mia vita a dipingere cartelli di protesta.»

«O a farti arrestare,» aggiunse Ron. «Agli amici questa storia non piacerà.»

«Se vedo un poliziotto,» disse il poeta, «ricordatevi che ho un affare urgente da sbrigare a Tangeri. Non me la sento di andare molto in là con questo scherzo.»

Forse era uno scherzo per lui e per molti dei presenti, che si comportavano secondo una parodia consapevole o inconsapevole di vecchi film: «Ehi, gente,» disse qualcuno, «facciamo una colletta per le uniformi?» «Ho capito tutto! Combiniamo una roba da fine del mondo!» Ma per Susie significava diventare, per un momento, una Giovanna d’Arco. Quando lasciarono il caffè, lei era in prima fila, e camminava decisa pestando gli stivaletti bianchi, in testa al corteo.

Certamente Madge non si era mai preoccupata meno che in quel momento della vulnerabilità dell’innocenza di sua figlia, dopo averla appena sentita insistere sulla parola «sedere» e averla vista arrossire nel pronunciarla. Com’era innocente, Susie, e come era stata invece smaliziata lei, a quell’età!