Bambola. Quella parola era esplosa nel cervello di Grandison Wompler mentre assisteva a una proiezione di Heidi al cinema Belmont. Era balzato in piedi e aveva cominciato a bestemmiare allegramente, fino a quando il direttore, Ned Lambert, s’era sentito in dovere di buttarlo fuori. Granny non se l’era presa. Non gli era dispiaciuto neppure di perdersi lo Spin-O-Cash. Cos’erano, per lui, cento dollari d’argento? Dentro gli ribolliva un progetto da un milione di dollari. Andò diritto a casa e scrisse, al centro d’un foglio di carta: «BAMBOLE = DOLLARI».
Perché non fabbricare bambole come Shelley Belle, lì nella sua cittadina natale, e perché non distribuirle in tutta la nazione… in tutto il mondo? Per Dio, avrebbe guadagnato un milione di dollari, e nello stesso tempo avrebbe reso famosa Millford.
C’era stato qualche inconveniente, con il passare del tempo. Aveva già incominciato la produzione quando un’ingiunzione del tribunale gli aveva proibito di far uso del nome «Shelley Belle.» Ma Grandison aveva già creato il mercato; non aveva più bisogno del nome. In poco tempo le Bambole che Camminano di Wompler erano diventate famose per conto proprio; la sua fortuna era fatta.
Persino durante la guerra gli era andata bene. L’impianto principale venne convertito alla produzione di proiettili di mitragliatrici, mentre le presse a caldo sfornavano i copriborraccia. La società aveva vinto due premi «E». Louie si era arruolato nell’esercito ed era stato decorato della Croce del Quartiermastro. Sembra che avesse acquistato più copriborraccia di qualunque altro quartiermastro. A padre e figlio era dispiaciuto vedere che il nemico s’era arreso così in fretta.
Nel 1946 le Bambole di Wompler avevano ripreso a camminare, ma ormai rendevano molto meno. Le vendite scendevano, scendevano, via via che la gente dimenticava Shelley Belle, invecchiata e alcolizzata. Ora, vent’anni dopo, la fabbrica si era fermata. Come diceva Gowan Dill, tra strizzate d’occhio e fragili gomitate, «La produzione è arrivata in fondo, ragazzi. Il reparto occhi è chiuso. Neanche una testa rotola più sulla catena di montaggio. Tanto vale che prendiamo il resto delle nostre bambole e…»
«E le buttiamo via, lo so,» disse con voce stanca Grandison. «Lo so, lo so, lo so.» Fissava con occhi vitrei la bambola che si allontanava da lui.
La bambola aveva immensi occhi azzurri e riccioli dorati, rigidi, a salamino. Indossava un abitino pieghettato rosso-bianco-azzurro con tante stelline d’argento, e un cappellino tondo. Le ginocchia rosee segnate dalle fossette, si scorgevano appena tra la frangia argentea della gonna e gli stivali bianchi con intarsi argentei.
«Miao, miao, miao, miao, miao,» diceva.
«A me sembra bellissima, Papà,» disse devotamente Louie. Era rimasto con il pugno bloccato dentro al barattolo delle compresse di Proteine Sooper. Non gli era venuto in mente che non era il caso di infilare la mano in un barattolo stringendo un estensore. «Mi sembra un ottimo prodotto.»
«Ma non lo vuole nessuno, figliolo. Le bambine non vogliono più le Bambole che Camminano di Wompler. Vogliono le Barby. Bambole che possono vestire secondo la moda.» La sua voce si caricò di furore; diventò paonazzo sotto l’abbronzatura. «Bambole che non sono neanche capaci di muovere un passo!»
«Ehi, Papà, ho un’idea! Perché non fabbrichiamo anche noi una bambola da vestire?»
«Perché non ne sappiamo niente di moda, ecco perché. Le cucitrici di Mrs. Lumsey non sanno cucire altro che piegoline e stelline.»
«E copriborraccia,» gracchiò Dill, agitando i polsini.
Nessuno sorrideva. Grandison guardava la bambola che camminava, e sembrava sul punto di piangere; ma era un uomo forte. Louie fissava, sbigottito, la propria mano intrappolata. Moley, il presidente della seduta, si stava afflosciando sulla sedia, accingendosi a dormire.
«Mandiamo la compagnia al campeggio!» azzardò Dill. Nessuno gli rispose. «Ah, be’,» sospirò. «Proviamo a pensare.»
La bambola, sempre miagolando, arrivò in fondo al tavolo e cadde. Ci fu il tonfo d’una faccia di guttaperca contro il pavimento.
«La fine di una grande era,» mormorò con voce rauca il presidente.
Pensarono. Louie faticava a concentrarsi. Avrebbe voluto essere fuori, a fare un po’ di podismo, o semplicemente ad abbronzarsi. Voleva studiare un po’ il suo karaté. Voleva andare a casa per vedere se la posta gli aveva portato il libro che aveva ordinato: Diciassette sistemi NUOVI per uccidere un uomo a mani nude. E il libro sulla lotta Sumo.
Il guaio dei libri era che non davano la sensazione di uccidere a mani nude. Ed era anche il guaio di abitare a Millford. Non c’era nessun istruttore a portata di mano. Louie voleva imparare tutti i sistemi giapponesi di autodifesa. Voleva imparare a uccidere un uomo con lo Zen… senza neanche toccarlo, dicevano. E poi c’era il Kabuki, e c’era il terribile Origami. Oh cribbio!
Continuò a guardare fuori dalla finestra in cerca d’ispirazione, fino a quando passò sfrecciando un’auto, del colore blu dell’aeronautica. Gli ricordò gli esercizi isometrici. Poi, in qualche cantuccio del proencefalo rudimentale di Louie, un minuscolo circuito si chiuse.
«Ci sono!» gridò. «Ho un’idea!»
Dill gemette. «Basta con le idee!» disse. «Non abbiamo ancora finito di pagare quell’idea della macchina per il caffè.»
L’ultimo prodotto del genio di Louie era stata l’idea di vendere il caffè agli operai con un distributore automatico che aveva comprato e installato nella mensa, a 25 cents la tazza. Per aumentare i profitti, aveva continuato a riciclare i fondi di caffè. In questo modo, aveva pensato, il distributore si sarebbe pagato da solo. Gli operai si erano dichiarati d’accordo. Che il distributore si pagasse pure da solo.
«No, questa è un’idea con i fiocchi. State a sentire. Perché non ci facciamo dare del danaro dal governo?»
«Perché non…» ripeté suo padre, senza comprendere.
«Credo che abbia trovato davvero qualcosa, Granny!» urlò Dill. «Perché non ci facciamo dare del danaro dal governo?»
«Oh, sì, davvero,» disse Moley, raddrizzandosi sulla sedia e aprendo un po’ gli occhi. «È proprio un’idea. Perché non…»
«Perché non ci facciamo dare un po’ di danaro dal governo?» disse Louie eccitatissimo. E si sforzò per completare quel pensiero. La sua mano imprigionata nel vetro si agitò impaziente. «Dal governo… per la ricerca!»
La teste calve annuirono. «Per la ricerca, sicuro!»
«Ma non dovremmo fabbricare qualche prodotto necessario al governo?» chiese Grandison, perplesso. «Qualcosa di vitale per la difesa della nostra nazione? Qualcosa d’importante per il suo benessere? Il governo non getta via il danaro così, vero?»
Quando gli altri ebbero finito di ridere, Dill posò sulla manica di Grandison una mano esile come una zampa d’uccello. «Tu sei un sognatore all’antica, Granny,» gracchiò, ridacchiando. «Forse lo sono anch’io. Dobbiamo rivolgerci a questo ragazzo, per trovare delle vere idee. I tempi sono cambiati, sai. Questa è l’era dell’astronauta. Nei tempi andati, lo ammetto, bisognava fabbricare una corazzata o una piscina municipale… qualcosa di utile. Ma dimmi: da un punto di vista pratico, a cosa serve spedire un uomo sulla Luna?»
«Be’, credo…»
«A niente! Non ha nessuna utilità terrestre!» gracchiò Dill. «Ma, sul serio, il governo spende milioni, zilioni, per mandare un uomo sulla Luna. D’altra parte, se hai qualche idea vera e pratica da vendergli, è meglio che lasci perdere.»
«È giusto!» urlò Louie, balzando in piedi e cominciando a camminare su e giù per la stanza. «Ricordate quella volta che cercai di vendere al governo la mia idea dell’inchiostro invisibile? Latte, era, puro e semplice latte. Le spie potevano adoperarlo per scrivere i messaggi, come inchiostro invisibile. Poi lo bollivi e lo scritto appariva come per magia. Sottoposi la mia idea al Pentagono, ti ricordi, Papà?» Tornò a buttarsi sulla sedia. «Non hanno mai risposto alla mia lettera,» aggiunse con voce più sommessa.