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«In Sapone,» disse invece, «il banco è l’odore di prosciutto.»

Le labbra imporporate della donna sorseggiarono il cocktail. Con evidente soddisfazione, lei disse: «Non mi racconti frottole! Lei non è mica un dottore! È solo un facchino del mercato delle carni. Perché non se ne torna alle sue zampe di porco?»

Cal scosse il capo, poi si guardò i piedi, cercando di capire cosa avesse inteso dire la donna. «Perché non…»

«Che schifo!» urlò quella, spruzzando in giro saliva. «Che schifo! Tutto eguale a mio marito! Cribbio, era un vero mascalzone! Si sporcava le camicie apposta! Veniva a casa con le scarpe sudicie e girava per tutte le stanze. Buttava quella lurida cenere in tutti i portacenere di casa. Be’, ne ho avuto abbastanza di quel porco e ne ho abbastanza anche di lei!»

Il cocktail della donna era gelido e schiumoso di panna. L’impatto costrinse Cal a indietreggiare alla cieca di qualche passo. Rimbalzò contro un tavolo e cadde. Dall’alto, delle facce lo guardarono, rosse e arrabbiate. Quattro o cinque voci blaterarono tutte insieme, quello lì le dava fastidio, signora? quel giovanotto ubriaco dovrebbe essere sotto le armi, mica a far finta d’essere un dottore. Un numero imprecisato di mani rimise in piedi Cal.

«È quasi ora che se ne vada, Carl, vecchio amico,» borbottò Slim, girandolo verso la porta.

«Mi chiamo Cal,» implorò lui. «Le farebbe piacere se io la chiamassi Scim, eh?»

«Ah, la mettiamo così, allora?» Slim pestò un pugno sulla testa di Cal e l’afferrò per la collottola: l’altra mano si infilò dietro la cintura. «L’avevo capito che avrebbe creato guai, nel momento che è entrato.»

La porta volò verso di loro.

Cal sfrecciò attraverso la porta, rimbalzò a quattro zampe, e poi rotolò e si fermò contro un muro di mattoni.

Il vicolo era inondato dal chiaro di luna. Cal rimase sdraiato per un po’, cercando di orientarsi. Vide un certo numero di bidoni della spazzatura, un manifesto che annunciava una Quadriglia delle Sedie a Rotelle dal Golden Sunset Ranch, e un suo piede privo di scarpa.

Si alzò a fatica e si aggirò zoppicando fino a quando trovò la scarpa perduta. Quando ebbe finito di vomitarci dentro, se la infilò.

Camminare su due gambe era difficile, perciò Cal avanzò a quattro zampe verso l’ingresso del vicolo. I due sconosciuti vestiti secondo lo stile di Palm Beach lo stavano aspettando. Senza una parola, lo raccattarono e lo scaraventarono sui sedili posteriori di una macchina. Benché fosse troppo buio per vederci bene, Cal era sicuro che si trattava di una Cadillac berlina, nera. L’uomo più basso salì accanto a lui, mentre l’altro si infilava al volante. Ricordava decisamente a Cal qualcuno dei suoi compagni di scuola di due settimane prima. Ma chi? Non Barthemo Beele. E neanche Mary Junes…

«Dove andiamo?» chiese, sforzandosi di tirarsi su a sedere. Lo sconosciuto lo respinse sul sedile e sfoderò una pistola.

«Per la verità, signore, l’abbiamo rapita. Il Professore ci ha dato ordine di sequestrare un matematico.»

«Che professore? Io voglio vedere la quadrisedia che balla a rotiglia.»

«Si metta questo sugli occhi, prego.» L’uomo gli consegnò una fascia di stoffa nera.

«Anche quella pistola lì ci ha l’ago dentro?»

Gli altri risero abbondantemente. «Giusto,» ringhiò l’autista. «Un ago per farti dormire… per un pezzo. A meno che preferisci il grande sonno, è meglio che tu faccia quello che ti diciamo noi. In questo racket noi facciamo sul serio: chi perde non becca niente, chiaro?»

C’era qualcosa di familiare in quella voce, pensò Cal; ma ormai la benda era a posto. Partirono.

Cinque minuti più tardi, dopo una serie complicata di giravolte, si fermarono e i due lo spinsero a un edificio.

«Bene, bene, bene,» tuonò una voce cordiale. «Abbiamo già compagnia, eh? Credo che questo sia il nostro matematico.» Cal immaginò un capo gangster con il sigaro in bocca che si stropicciava le mani. «Toglietegli la benda e guardiamolo in faccia.»

La benda fu tolta e Cal si trovò davanti a una bionda florida dalla faccia simpatica, con una cuffia in testa e una camicia da notte di flanella. Sembrava uscita da un quadro fiammingo, ma per la verità, al posto della candela aveva in mano una bottiglia di scotch e un bicchiere. «Benvenuto a Castel Rackrent!» tuonò. «Vuol bere qualcosa?»

A Cal si contrasse lo stomaco. «Io non… non credo. Lei è… il Professore?»

«Me? Ahah, benedetto, andiamo, io sono Daisy, fidanzata del Professore e sua ex segretaria. Quello è il Professore.»

La bionda si tirò da parte, rivelando un uomo magro e fragile, seduto sul divano. I capelli radi, color pomice, erano disposti in strisce polverose sulla calvizie. Sembrava impegnatissimo a scrivere con una penna d’oca su di un vecchio librone sciupato, così enorme che gli nascondeva gran parte del corpo, anche se Cal vedeva le gambe penzolanti che non toccavano il pavimento.

«Lieto di conoscerla,» disse Cal.

«Lieto di…» gracidò l’altro. Ma Daisy gli si mise di nuovo davanti come un sipario, e quello si azzitti.

«Il suo vero nome è Brian Gallopini,» disse Daisy, versandosi un bicchiere di liquore. «Ma nel mondo della malavita tutti quelli che hanno un’istruzione universitaria vengono chiamati ‘Professore’, vede.»

«Allora non lo è davvero?»

La bionda bevve il suo quarto di litro e se ne versò un altro. «Oh, sì, è professore davvero. Di letteratura del diciottesimo secolo. O lo era. Io ero la sua segretaria. Decidemmo di scappare e di metterci a fare i gangster, quando lui ebbe la sua idea… ma questa è un’altra storia. Mi chiamo Daisy le Duc e, se è furbo, lei deve resistere alla tentazione di chiamarmi ‘Daisy Duck’, perché quello è il nome di Paperina.» Per un attimo la gaiezza svanì dal suo sorriso, poi ritornò a piena forza. «Adesso completerò le presentazioni, così lei potrà pulirsi la terra e il sangue dalla faccia, e potremo vederla bene.

«Questi due sono i collaboratori delle attività criminose del Professore: Mr. John Beaumains, conosciuto come Jack lo Squartarore, per ragioni che nessuno riesce a indovinare, e ‘Harry lo Scimmione’, il cui vero nome è…»

«Harry Stropp!» L’esclamazione sfuggì dalle labbra di Cal, che proprio in quel momento s’era voltato e aveva riconosciuto il suo rapitore.

Harry, poiché era veramente lui, sbirciò sbalordito la faccia incrostata di sporcizia e di sangue. «Calvin Potter!» gridò. «Che cosa ci fai tu qui?»

«Potrei rivolgerti la stessa domanda. Harry, ti sei dato a una vita di crimine?»

Dalle spalle di Daisy si levò una voce stridente. «Sono queste combinazioni a provar l’esistenza di ciò che viene chiamato Destino, e che presiede al nostro universo ‘casuale’. Ne prenderò nota nel mio diario.» La penna d’oca scricchiolò.

«Non preoccuparti,» disse Harry con voce bassa e confidenziale, «anche se mi hai portato via Mary Junes. Oh, per un po’ ci sono rimasto male, lo ammetto, ma ormai mi è passata. Ci sono tante altre mele sull’albero.»

«Bene,» ridacchiò Daisy. «Non teniamo Mr… Potter, vero? Mr. Potter in piedi per tutta la notte. Domattina dobbiamo partire tutti molto presto per Las Vegas. Quindi penso sia meglio che le spieghi perché l’abbiamo sequestrata.

«Il Professore ha ideato un sistema complesso e infallibile per vincere alla roulette. Da un punto di vista simbolico, ci prepariamo a espugnare Las Vegas. Questo sistema non può fallire. Entro la settimana prossima, dovremmo avere le chiavi della città, da un punto di vista pratico.»

«Ma io cosa c’entro?»

«Esattamente!» pigolò il Professore. «Cosa c’entra lei? Sembra che il mio sistema sia perfetto in teoria… cioè, nel complesso è perfetto. Ma i calcoli per piazzare ogni puntata sono troppo complessi per noi. Ed è qui che entra in scena lei, il nostro genio matematico.»