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«Sono molto lusingato, naturalmente, ma…»

«Portalo via, Harry,» disse Daisy, con un gesto imperioso. «Chiudilo nel bagno, per stanotte, e stai di guardia alla porta.»

«Ma…»

«Tu, muoviti.» Harry trascinò Cal fino al bagno, lo scaraventò dentro, e lo chiuse a chiave.

Non c’erano finestre. Cal cominciò a camminare avanti e indietro, studiando gli infissi, in attesa che gli altri si addormentassero. Poi si chinò e bisbigliò al buco della serratura:

«Harry! pst! perché non mi lasci uscire? Fammi questo favore, ti prego.»

Harry rise, e la sua risata pareva un rauco latrato. «Fare un favore a te? Questa è grande. E dopo tutto quello che tu hai fatto a me.»

«Senti, Harry, ti chiedo scusa per…»

«Oh, non fraintendermi. Di Mary Junes non m’importa più niente. Niente. L’ho dimenticata. Voglio dire, ci sono tanti altri biscotti nella scatola. Ma… fare un favore a te! Questa è proprio grande.»

Cal si raggomitolò dentro la vasca da bagno e cercò di dormire. Di tanto in tanto, Harry emetteva un altro latrato strozzato. «Cribbio! Questa è proprio grande. Fare un favore a lui!»

La mattina dopo i cinque partirono per Las Vegas. Cal non venne bendato, e poté quindi vedere che il motel dove aveva trascorso la notte si trovava proprio di fronte a The El Cantina Bar.

Mentre lui covava i postumi della sbronza, gli altri quattro incominciarono un’animata conversazione sulla natura dell’universo, interpretata tramite l’opera della coincidenza.

Daisy sosteneva che nella coincidenza si deve vedere la mano della Divinità. Ricordò numerosi casi di date di nascita simultanee, di albinismo, di persone colpite dal fulmine o dalle meteore, e gli strani risultati degli esperimenti del dottor Rhine.

Jack ammise che non aveva torto. Harry riconobbe che le coincidenze, a quanto pareva, capitavano davvero.

Brian Gallopini rispose che sarebbe stato blasfemo imputare alla Divinità le frane nelle miniere, le collisioni di aerei in volo che uccidevano i bambini, gli smarrimenti degli assegni delle assicurazioni da parte delle povere vedove.

Harry continuò a sostenere che gli incidenti capitavano davvero.

Daisy si richiamò alla narrativa del secolo decimottavo. Citò varie coincidenze in Tom Jones e in Humphrey Clinker. Se quelle erano opere degli autori (Fielding e Smollet), perché le coincidenze della Vita non dovevano avere un Autore (Dio)?

«Tuoni e fulmini!» imprecò Brian. «Stai cercando forse di dirmi, o donna, che tu ed io altro non siam che marionette, mosse dal capriccio d’un buffone di romanziere? Puah! Tu puoi creder ciò che più t’aggrada, ma sappi che io son un libero agente. Io comando alla mia mano di muoversi, ed essa si muove. Vedi?» Ed eseguì.

Daisy rise. «Sì, ma solo perché eri destinato a comandarle di muoversi. Tu sei comandato dall’Autore di Tutto.»

Ma il Professore piombò in un tetro silenzio e rifiutò di rispondere. Ormai si cominciavano a scorgere alcuni degli edifici più alti e dei cartelloni pubblicitari più grandi di Las Vegas.

Il Professore offrì a Cal una presa di tabacco da fiuto Bergamot, poi incominciò a spiegargli il suo ingegnoso sistema per puntare alla roulette.

«Ogniqualvolta il giocatore perde la posta,» disse, concitato, «la raddoppia alla puntata susseguente. Poiché è giocoforza che ogni serie casuale obbedisca alle leggi immutabili del Destino, la prima puntata vincente dovrà più che compensar d’un sol colpo tutte le di lui precedenti perdite.»

Cal gemette tra sé, ma non disse niente, ricordando che era un ospite… e prigioniero.

«Gli è un sistema complesso, ma infallibile,» concluse Gallopini. «Eppurtuttavia rivela l’ordinato funzionamento dell’universo. E l’universo è ordinato. Affermar che non sia è credere nella magia. Tanto dir varrebbe che l’uomo di quell’insegna avviarsi potrebbe a camminare nel deserto.»

L’insegna che aveva indicato era una immagine gigantesca d’un cercatore minerario, sopra a un casinò. In una mano l’uomo teneva una ciotola di pepite, mentre l’altra si muoveva in su e in giù, in un gesto di richiamo. Era una delle insegne più famose della città, e di notte si vedeva a parecchi chilometri di distanza.

Sotto gli occhi del gruppo inorridito, sembrò che l’uomo muovesse un passo. Daisy urlò, con la sua profonda voce di baritono, mentre il Professore sbiancava come una parrucca incipriata del Settecento.

«Ah, non è niente. Sta solo cascando. Forse l’abbattono,» disse. Videro l’insegna afflosciarsi e disintegrarsi, con un certo sollievo. Una coincidenza sconvolgente, ma non sovrannaturale. Gli altri si tranquillizzarono, ma Cal rimase irrigidito a fissare l’orizzonte.

«Credo di sapere quello che succede,» mormorò. In lontananza, un’altra insegna crollò, mentre le piccole scatole grige le brulicavano sopra, come formiche. «È meglio che giriamo la macchina e che filiamo a tutta velocità nella direzione opposta.»

«Non dica asinaggini!» esclamò il Professore. «Io son qui giunto per far la mia fortuna, e certo non mi volgerò in fuga al suo comando. Freni la lingua, signore!»

«Torna indietro! Ti prego!» disse Cal a Harry, che stava al volante.

«Per fare un favore a te, immagino,» fece quello, beffardo.

«Ascoltatemi. In questa città si sta aggirando una cosa… un’arma segreta sfuggita al controllo. Non so come abbia fatto ad arrivare fin qui, ma sembra proprio che si sia impadronita di Las Vegas. Ne sono sicuro. Credetemi, rischiamo la vita se entriamo in città.»

«Bubbole e fanfaluche!» scattò il Professore. «Io non le credo, signore. Ma, acciò che lei non possa accusarmi d’esser io iniquo, potremmo arrestarci ad un telefono e chiamar laggiù. Potremmo così prenotar le stanze, e nel contempo dimostrare che l’assurda sua teoria non ha il benché minimo fondamento. Fermati a quel telefono laggiù, Harry. Fermati, ho detto!»

Ma la macchina passò oltre la cabina. Anzi, aumentò di velocità. «Non riesco a tenerla,» disse Harry. «È come se le avesse preso qualcosa. Lo sterzo è bloccato, e c’è una specie di… di cavo che ci tira avanti.»

Erano ormai abbastanza vicini alla città per vedere la distruzione, e torme di sagome a forma di scatola che brulicavano sulle facciate sventrate degli edifici e sulle insegne.

«Cosa facciamo?» urlò Daisy.

«Non possiam far nulla,» disse sottovoce il fidanzato, battendo le dita sul coperchio della tabacchiera. «Parrebbe che noi si debba continuamente accelerare sin quando urteremo qualcosa e probabilmente morremo. Tu puoi prepararti ad incontrare il tuo Autore, mia cara. Ora, poiché forse ancor ci resta un minuto o due, propongo che Mr. Potter ci dica alcunché di codesta prodigiosa macchina.»

Capitolo Decimo

Il dottor Smilax

«Tuttavia, esaminiamo più attentamente i fatti.»

A.J. AYER

Poco prima di presentarsi ai Capi di Stato Maggiore, il dottor Smilax entrò nella toelette maschile adiacente alla sala delle conferenze del NORAD e cominciò a pettinarsi energicamente i capelli. In quelle occasioni, la tensione pareva contrargli il cuoio capelluto, che gli prudeva furiosamente se lui non si affrettava a impartirgli una sollecita e vigorosa rastrellata.

I capelli erano neri, striati di grigio argento, della stessa sfumatura della sua cravatta di foulard. La cravatta era ricamata a neri bacilli d’antrace, meticolosamente annodata e fermata da un minuscolo bisturi d’argento. L’abito era di un grigio sobrio, la camicia di un azzurro televisione, sebbene Smilax non avesse intenzione di comparire davanti alle telecamere. L’unica vera macchia di colore, in lui, era il distintivo della Banca del Sangue che portava all’occhiello, una gocciolina di plastica rossa.