I lineamenti arroganti del volto di Smilax erano addolciti dai baffi ben curati, mentre gli occhiali non cerchiati diluivano la particolare intensità del suo sguardo. La sua, comunque, era l’implacabile espressione di un uomo abituato al comando, non all’acquiescenza. Non era capace di adulare, come facevano quasi tutti gli «esperti» borghesi consultati dai Capi di Stato Maggiore. Smilax dava ordini, non implorava di riceverne, e il suo aspetto da burocrate non bastava a nascondere questa realtà. L’educazione, pensò, concedendosi un sorrisetto ironico, veniva fuori sempre.
Toto Smilax, dottore in medicina, dottore in veterinaria, libero docente di chimica, era il rampollo d’una buona famiglia, sia pure per caso. Una delle prime cose che ricordava era sua madre che scrollava il capo e diceva: «Figlio mio, non voglio che tu vada a finir male come me.»
A cinque anni, lui scoprì cosa significava «andare a finir male»: voleva dire avere un figlio senza essere sposati. Subito Toto cominciò a temere di mettere al mondo anche lui un figlio al di fuori del matrimonio. Ogni mattina guardava spaventato nel suo letto, per vedere se era arrivato un bambino.
Lotte Smilax, la madre, non si era mai sposata. Spesso raccontava al piccolo Toto di essere figlia di un uomo importante del West, e di aver causato il disonore della famiglia perché aveva lasciato che il maggiordomo pazzo la violentasse sotto la minaccia d’una pistola.
«È stato tutto perché mio Papà non mi picchiava mai,» diceva. «Oh, se mi avesse picchiata! Ma con te mi comporterò molto meglio, figlio mio. Non commetterò gli stessi errori di mio padre. Voglio che tu abbia tutte le possibilità che io non ho mai avuto.»
E così dicendo, cominciava a picchiarlo con tutto quello che le capitava: lo stivale, una frusta, un mestolo o una cintura.
La scuola, per Toto, era stata egualmente uno strazio, perché gli altri bambini lo torturavano senza pietà, al limite della loro immaginazione diabolica. Lo punzecchiavano con i compassi, gli rubavano o gli stracciavano i libri, dicevano che sua madre era una «bottana», e che lui non aveva un padre, gli tiravano i sassi, inventavano canzoncine per prenderlo in giro, e lo invitavano a mangiare (d’estate) sabbia e fango e (d’inverno) neve sporcata dai cani.
Facevano tutto questo, naturalmente, perché lui si chiamava Toto. Non era un nome cristiano, e non era neanche il nome di un famoso eroe, vero o fittizio. Era il nome di un cane.
Il povero Toto era stato chiamato così in onore del personaggio letterario più caro a sua madre, il cagnolino di Dorothy nel Mago di Oz. Lotte, bisogna precisare, amava gli animali, e la sua libreria era pieni di libri sui cani, comprese le opere complete di Albert Payson Terhune e Cani di Fiandra, che la facevano piangere ogni volta che li leggeva.
Sebbene fosse inflessibile in fatto di disciplina, la madre di Toto era anche una creatura ricca di calore umano e d’impulsi generosi, che non resisteva mai alla tentazione di portare a casa un cane affamato o un gattino zoppo. In genere, il focolare era allietato dalla presenza di uno o due Lad, un Rex, uno Spot, e magari da una mezza dozzina di Snowball e di Midnight. Spesso Lotte li incoraggiava a mangiare tutti insieme, cani e gatti, a tavola con lei, perché le piaceva avere compagnia a cena, e Toto, per il suo bene, era confinato davanti alla ciotola con il suo nome, sul pavimento della cucina.
Ogni notte, raggomitolato nel suo cestino, Toto sentiva sua madre che usciva per andare alle riunioni della Società Protettrice degli Animali. E lui restava lì a pregare, nominando ciascuna delle care bestiole di Lotte insieme a un tipo diverso di morte dolorosa. Per completare l’elenco, evocava una serie di lente agonie per Albert Payson Terhune, che immaginava fosse il padre di Lotte.
Un giorno, madre e figlio portarono uno dei vari Rex rognosi alla Clinica degli Animali. Toto se ne andò a zonzo per l’edificio, scoprendo i misteri della medicina veterinaria. Dietro una grande vetrata, vide una gatta che veniva sottoposta al taglio cesareo e dava alla luce sei micini. Toto premette il naso contro il vetro, affascinato. Era tutto così bello… il sangue rossovivo, il lenzuolo candido, il mistero della riproduzione, svelato da un coltello lucente. Dunque quello era il sesso!
Il piccolo spirito ardente di Toto respinse tutto ciò che gli era stato insegnato. Avere dei bambini non poteva essere poi così sbagliato. Una cosa tanto solenne e sanguinosa non poteva essere perversa. Giurò che sarebbe diventato veterinario.
Quando Toto ebbe otto anni, il tappeto magico di un’ordinanza del tribunale lo sottrasse alla custodia di sua madre e lo portò a vivere a Dubuque, con due vecchie zie zitelle, miti e simpatiche. Niente più botte, mangiare in abbondanza, un vero letto. E al posto della scuola, un istitutore privato.
Il bambino illetterato, che mangiava allappando come i cani, diventò un giovin signore perfetto, che per nobiltà e raffinatezza superava persino i sogni più rosei delle zie. Le due zitelle non badarono a spese per fargli insegnare tutte le lingue classiche e moderne; e dai migliori docenti imparò la matematica, l’arte oratoria, la scherma e la danza.
Toto si dimostrò un allievo tutt’altro che indegno, e a tredici anni si laureò in veterinaria, e due anni dopo in medicina e chirurgia. Per mantenere agili le dita studiò violino, raggiungendo uno straordinario virtuosismo tecnico. Tuttavia suonava di rado, perché le note alte gli ferivano le orecchie.
A Zurigo, Toto conobbe una giovane anestesista inglese che si chiamava Nan Richmons, e per la prima volta nei suoi vent’anni di vita conobbe una passione più sconvolgente della sua dedizione alla scienza. Non solo Nan era bella e intelligente, ma le sue radiografie mostravano una simmetria cristallina che lasciava Toto senza fiato. Quanto tempo doveva passare prima che egli potesse contemplare dal vero quella matassa del colon, quelle ovaie, le curve perfette dei reni di lei? Quanto tempo doveva attendere prima di poter cogliere il fiore fragile della sua appendice? Chiese a Nan di sposarlo e di diventare il soggetto dei suoi esperimenti chirurgici e — oh, indicibile beatitudine peritoneale! — lei gli disse di sì.
Si fecero le pubblicazioni su due continenti. Toto e Nan trascorrevano la serata progettando isterectomie, e nuove, pericolose tecniche d’anestesia. Poi, senza preavviso, i loro castelli d’etere crollarono.
Uno sconosciuto imbacuccato si recò a far visita a Toto nel suo laboratorio, dove lui stava sezionando un cadavere alla vigilia delle nozze.
«Lei non può sposare Nan Richmons.»
«E perché no?» chiese Toto, oscurandosi in volto. «L’avverto, signore, stia bene attento a come parla di lei.»
«Vuole sapere perché?» Lo sconosciuto rise follemente. «Per due ragioni. La prima è che è già sposata… con me.»
«Non m’importa. Siamo nel 1935, signore! Comportiamoci da persone civili. Il passato non mi…»
«Aspetti! La seconda ragione è… che io le ho già asportato l’appendice oltre due anni fa.»
Toto impallidì e arretrò vacillando d’un passo, posandosi una mano cadaverica sul cuore palpitante. «Buon Dio! Mi dica che ha mentito, mostro!» Lo sconosciuto scrollò mestamente il capo.
«È la verità.»
«E allora ecco!» Toto afferrò un bisturi e glielo porse. «Mi asporti il cuore, signore. A me non serve più.»
Il fidanzamento venne subito rotto. Nan, disperata, si tolse la vita con un miscuglio di cloroformio e di protossido d’azoto. Poi Toto fece lunghi viaggi in Oriente, in Africa e altrove, studiando le più strane tecniche chirurgiche.
Dopo la seconda guerra mondiale, comparve in California, annunciando la propria intenzione di aprire un laboratorio di ricerche. Il Dipartimento della Difesa gli mise subito a disposizione parecchi milioni di dollari. Toto si isolò per un altro decennio, eseguendo ricerche sul dolore, e nel contempo sfornò libri e monografie di altissimo interesse (Chirurgia estetica; La sofferenza, strada della salute; e un testo di pedagogia: Risparmiare il bastone? Mai!). Nello stesso tempo, studiò e conquistò nuovi rami dello scibile: fisica, biochimica, astronomia, biofisica e aracnologia, come altrettante spighe di grano, caddero sotto la falce affilata della sua mente. Nel 19… le sue ricerche culminarono nell’invenzione del computer DNA meglio conosciuto come QUIDNAC.