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Solerte, il cameriere che era fierissimo del suo scarso inglese portò loro dell’altro champagne. «Encore bouteille de suino, messieurs?» E lo versò prima che potessero rifiutare.

«Gli americani non conoscono l’amore,» proseguì Vovov. «Loro hanno solo i supermarket e le superstrade. Fabbriche e vita di massa. Puah!» E spalmò il caviale. «Qual è la loro arte? Il fumetto. I canti dei lavoratori negri, rubati e cantati dagli sfruttatori bianchi. I film western. Non è bastato loro di sterminare i poveri indiani, no, dovevano anche glorificare il loro genocidio. L’indiano deve continuare a cadere dal suo cavallo, per soddisfare la sete di sangue dei decadenti imperialisti. Bah! Mi ricordo un film, La battaglia di Comanche Arroyo, dove facevano la stessa sequenza un sacco di volte: si vedeva un indiano che continuava a cadere morto da cavallo. Speravano che il loro pubblico depravato non lo notasse.»

«Era quel film con John Wayne?» chiese Brioche, interessato.

«No, credo che fosse… me lo sono scordato. Ma vede, era quello dove il colonnello vuole restare a tenere il forte, ma il capitano, quello giovane che è innamorato della moglie del colonnello… Be’, lui…»

«Oui, oui, je… lo ricordo benissimo!» esclamò l’astronauta. «E poi il capitano porta uno squadrone verso Comanche Arroyo, anche se sa che sarà la morte certa, che verranno tutti massacrati, perché sa che in questo modo darà al forte il tempo necessario per mandare a cercare i rinforzi!»

«Ricorda le sue ultime parole?» Vovov cominciò a piangere, mentre riempiva di nuovo i bicchieri di champagne. «’È la cosa di gran lunga migliore che io abbia mai fatto, e ora andrò a ricevere la ricompensa più grande’. Ah, anche un uomo forte si sente commuovere, di fronte a un discorso così.»

«Ah, sì. Un film meraviglioso.»

Dopo alcuni minuti di silenzio assorto, Vetch parlò. «A costo di rovinare il nostro piccolo festival cinematografico,» disse in tono asciutto, «devo pregarla di ritornare all’argomento principale della nostra conversazione. E cioè, Marcel Brioche, è disposto a portare con sé un osservatore russo nel suo viaggio alla Luna? Non le offriamo un compenso, un prezzo materiale… questo modo di comportarsi lo lasciamo agli americani. No, noi possiamo offrirle solo la consapevolezza di contribuire al rovesciamento dell’imperialismo e all’espropriazione degli espropriatori.»

Brioche scosse il capo. «No, non posso aiutarla. Io sono per la Francia, solo per la Francia. L’unica persona che avrei voluto portare sulla Luna con me… è lontana, lontana, al di là della Luna, ormai. Andrò da solo.»

Si alzò e si congedò, chiuso in un desolato silenzio.

In russo, Vetch disse: «Ho paura che dovremo ucciderlo. Peccato che non lavori dalla parte giusta. È un tipo onesto.»

Notò che Vovov stava guardando nel vuoto, con gli occhi rossi e un’espressione vacua dipinta sul viso. Vetch gli diede una gomitata.

«Non prendertela così,» disse. «Ricordati, siamo agenti segreti. Non possiamo permetterci di fare amicizia con i nostri commensali, proprio perché può darsi che dobbiamo ucciderli. Un agente non ha amici. Dobbiamo essere pronti a sacrificare chiunque…»

«Ssst!» disse Vovov, la faccia larga contratta per l’irritazione. «L’avevo quasi ricordato… il nome dell’attrice che faceva la parte della moglie del colonnello. Era Virginia Mayo? No…»

Capitolo Dodicesimo

La nostra eroina

«Dell’amore come spettacolo, Bathsheba aveva una discreta conoscenza; ma dell’amore, soggettivamente, non sapeva nulla.»

HARDY

Quando Aurora fermò la macchina, B476 si arrampicò sulla spalliera del sedile e cominciò a squittire, lamentandosi per quella cessazione del movimento.

«Su, andiamo,» disse lei. Ma B476, un ratto da laboratorio bianco e nero, continuò a fremere innervosito fino a quando Aurora non gli accarezzò la schiena con il pollice.

Accendendosi una sigaretta, lei si appoggiò alla spalliera e guardò i pali storti del telefono, simili agli alberi di navi bloccate dalla bonaccia. Gli alberi cominciavano a gettare ombre molto lunghe, ormai, e Aurora si era persa.

Spalancò il cassetto del cruscotto, poi lo rinchiuse subito. L’istinto la spingeva a cercare lì dentro la carta stradale del Nevada, mentre sapeva benissimo che era nella tasca del suo impermeabile, appeso nell’armadio a casa sua, a Santa Filomena, lontana parecchie centinaia di chilometri.

Quante centinaia fossero, lei non ne aveva idea. Era evidente che quella strada stava diventando un sentiero per mucche, e che portava a nord, non a est. Era partita da Santa Filomena quella mattina, con l’idea di arrivare a Millford prima di notte. Sembrava che l’ultimo cartello «DEVIAZIONE — VIETATO L’ACCESSO — ZONA MILITARE — PERICOLO» l’avesse dirottata nella direzione sbagliata. Adesso poteva trovarsi a una dozzina come a un centinaio di chilometri di distanza dall’autostrada dell’Utah. Comunque, sembrava non ci fosse altro da fare che tirare avanti.

Con un sospiro, schiacciò la sigaretta nel portacenere già strapieno. Poi lo estrasse e lo vuotò fuori dal finestrino. Il vento s’impadronì del turbine di cenere e lo portò via in scie che il sole colorava di arancione pallido. La polvere tornava alla polvere, le ceneri alla cenere del deserto. Yucca Flats non poteva essere molto lontana. Alcune particelle di pulviscolo continuarono a volarle intorno in un insensato moto browniano, faville di luce ardente.

Il fulgore precipita dall’aria Tante belle regine sono morte; E la polvere ha chiuso gli occhi d’Elena…

B476 e B893 si erano raggomitolati vicino a lei sul sedile. I ratti da laboratorio erano sempre deboli e delicati, ed erano sensibili al rinfrescarsi dall’aria, quando calava il sole. Era assurdo, si disse Aurora, preoccuparsi tanto della sorte di un paio di ratti malaticci, quando la razza umana stava per essere strangolata dalla propria invenzione. Era…

Anormale?

Una volta, una rivista aveva scritto, a proposito dei bambini prodigio: «È errato supporre che non possano vivere esistenze felici, equilibrate, piene. L’idea popolare dei bambini prodigio nevrotici è infondata.»

Aurora aveva tre anni quando aveva letto quell’articolo e ne aveva valutato le promesse. Era così? Lei avrebbe avuto davvero un’esistenza felice, piena, equilibrata? Dunque lei era eguale a tutti gli altri? Oppure era destinata, come suo padre, a uno speciale tormento?

L’ipotesi vera era la seconda, e lei lo sapeva già quando aveva tre anni. Quando parlavano con lui, gli altri chiamavano suo padre «Charlie», ma dietro le spalle, lei lo sapeva, gli davano «dell’inventore matto», e ridevano di lui, con una sorta di paura negli occhi. Come lei avrebbe capito più tardi, quella era la ragione di tutti i brutti scherzi. Non ne avevano risparmiato uno, dal rovesciargli la latrina all’appendere un water nel granaio fino a spassi più maligni, come bruciargli la rastrelliera del granturco quand’era piena. Lui sembrava non si arrabbiasse mai: era solo perplesso. Soffiava nella pipa spenta, di solito vuota, e osservava il cane avvelenato o il chiodo piantato nel serbatoio del trattore come se fosse una specie di equazione da risolvere con un’attenta concentrazione.

Adesso, mentre Aurora ingranava di nuovo la marcia e si avviava per quella strada evanescente, le sembrava quasi che qualcuno stesse giocando un brutto scherzo a lei. Vide un altro cartello, «DEVIAZIONE»: indicava due solchi di ruote di carro che non potevano condurre da nessuna parte. Lei obbedì, scrollando la testa.

B476 le si arrampicò sulla spalla, si rannicchiò tra il collo di lei e la spalliera del sedile e si accinse a dormire. Lui e B893 non erano utilizzabili per gli esperimenti. Erano ratti «di scarto» che, a causa di difetti genetici o di condizionamenti particolari, erano inutili per gli esperimento comportamentistici. Lei aveva preso l’abitudine di portarseli a casa, per quei pochi mesi che vivevano. Certo, erano scherzi di natura, erano anormali… ma Aurora sapeva empatizzare con l’anormalità.