Aurora era un genio in una comunità in cui il genio era trattato come una pericolosa deviazione della norma. La simmetria campaniforme della normale curva di distribuzione dei Quozienti d’Intelligenza, nella sua prima scuola, era diventata una gobba simile alla rocca di Gibilterra, prima che la notassero e!a spedissero ad una «scuola differenziale per bambini eccezionali». I suoi compagni di classe avevano palati fessi, catarratte agli occhi e menti opache. I maestri non capivano bene perché Aurora fosse finita lì: la sospettavano di avere qualche difetto nascosto e perciò più orribile.
Aurora non era rimasta a lungo alla scuola differenziale. Studiando a casa, a dieci anni aveva preso il diploma delle scuole superiori con un corso per corrispondenza. A tredici anni si era laureata summa cum laude in psicologia del comportamento all’University of Minnesota, e a diciassette era diventata Professore Associato di Psicologia all’University of California a Santa Filomena.
Era stato allora che aveva assunto l’aspetto scialbo e prudente che aveva preso il posto del vero carattere nella sua vita professionale. Portava i capelli corti (ma non troppo), le unghie corte e laccate di chiaro, scarpe con mezzi tacchi. Oltre al sobrio vestito a giacca che indossava, ce n’erano altri cinque nel suo armadio, a casa, di varie sfumature di grigio. Si truccava e si ingioiellava solo quel tanto necessario per non farsi notare per quel tipo di donna che non si trucca e non porta gioielli. Non che ad Aurora (la vera Aurora, racchiusa nel profondo della sua figura professorale) non sarebbe piaciuto essere ammirata, ma la sua posizione richiedeva un tatto particolare. Doveva rendersi poco appetibile agli occhi dei suoi studenti maschi (molti dei quali erano più vecchi di lei), per tenerli a debita distanza. Doveva sembrare più vecchia agli occhi dei suoi colleghi, che nonostante tutto tendevano inconsciamente ad essere scettici nei confronti dell’efficienza dei giovanissimi. Così la mimetizzazione delle aule e del laboratorio era diventata un’abitudine. Aurora aveva vent’anni, se ne sentiva venticinque, si comportava come se ne avesse trenta, e qualche volta la gente gliene attribuiva trentacinque.
Due figure erano ferme sulla strada, a sinistra; evidentemente aspettavano che qualcuno desse loro un passaggio nella direzione da cui arrivava Aurora. Rallentò per chiedere se sapevano la strada per Millford, Utah. Quando i due si girarono, Aurora rimase sbalordita nel riconoscere un suo allievo, Kevin Mackintosh.
«Che ci fa qui nel Nevada, Mr. Mackintosh?» gli chiese, frastornata.
Il giovanotto aveva gli occhi vitrei. Invece di risponderle, diede una gomitata al suo compagno. «Siamo davvero andati,» borbottò. «Quella pollastra lì mi sembra una delle mie prof.»
«Oh, era roba buona,» assentì l’altro, guardando da un’altra parte. «Quale pollastra?»
Aurora si innervosì un po’. Innestò la prima e tenne il piede sull’acceleratore. «Avete idea da che parte sia la strada per l’Utah?» chiese, incalzante.
Kevin Mackintosh pareva guardare nel vuoto. «La strada per il Tao?» mormorò. «Le Sette Vie. Guardi!» Levò le braccia verso il tramonto. «Apocalisse! Le vergini sagge accendono le lampade! La nera yoni della Notte accoglie il lingam fiammeggiante del Giorno!»
«Già, la Guerra dei Mondi,» disse Ron.
«Signora, il mio amico Ron, qui, ed io, abbiamo visto l’Inferno. Abbiamo visto la fine del mondo in smagliante technicolor. I paracadutisti che combattevano alla morte contro i Mostri venuti dallo Spazio. Hanno arrestato i nostri amici, ma noi siamo scappati.»
«Chi è stato?» chiese Aurora. «I Mostri Venuti dallo Spazio?»
«No, i paracadutisti. L’esercito. È la fine della civiltà.»
«Pentitevi!» urlò l’altro. «Avete visto Gorgo?»
«Il mio amico, qui, ed io stiamo attraversando il Sahara anche se non abbiamo acqua, e andiamo in Marocco.»
Aurora si rilassò un po’, riconoscendo un paio di studenti non troppo intelligenti del college, che drammatizzavano il loro primo incontro con la droga. «Se non v’interessa molto il modo in cui ci arrivate,» disse, energica, «potete venire con me nello Utah… spero.»
«No, grazie, signora. Dico sul serio, andiamo in Marocco; Ron ha la carta di credito delle linee aeree di suo padre. Ne abbiamo fin sopra la testa di questo paese. Bisogna andare in Marocco, con Dorothy Lamour e Bing Crosby e Bob Hope e William Burroughs.» Cominciò a cantare, con voce stonata, una versione approssimativa di «The Road to Morocco».
«Ho capito,» disse il suo compagno. «Hai visto Casablanca?»
«Se mai ce la faremo a trovare un passaggio per andarcene da qui. Non passano altro che jeep e carri armati, come in Campo di battaglia, e mica si fermano.»
«Così, se ne sono andati?» fece Aurora, e premette l’acceleratore.
«No andati,» spiegò paziente Mackintosh. «Armati.»
Quando Aurora si allontanò, Ron la guardò e lanciò un urlo. «Oh mio Dio, sto proprio andando! Oh mio Dio! CÈ UN RATTO CHE LE SPUNTA DALLA TESTA!»
«Già! Ehi, Ron, hai mai visto Giorni perduti?»
Un cartello la informò che le luci a sinistra erano quelle di Piedport, Nevada, sei chilometri più in là. Mentre Aurora stava per esalare un sospiro di sollievo e per infilare la deviazione (perché almeno a Piedport ci doveva essere un albergo), le luci della cittadina si spensero. Si fermò e attese per parecchi minuti, ma non successe niente. Era inutile stare lì ferma, e tanto valeva continuare e arrivare a un centro abitato che almeno avesse l’illuminazione.
La radio fece udire solo uno squittio che allarmò B476. Nessuno dei pulsanti pareva avere altro effetto che quello di variare l’intensità del sibilo. Era strano, perché non poteva essere più tardi delle nove. Avrebbe dovuto esserci una dozzina di stazioni.
Regolando i comandi a mano, trovò una stazione molto debole, a sud-est.
«…voi continuate a mandarci lettere e cartoline, eh? Indirizzatele tutte a me, siamo felici di avere vostre notizie… chiedeteci pure tutte le canzoni che volete… Ecco qui un comunicato, gente, sembra che abbiano avuto un guasto alla rete di distribuzione dell’elettricità dalle parti della California, Nevada, Oregon, Utah, Washington… Iowa, Kansas…»
Nel bel mezzo di questo elenco allarmante, la stazione si perse. Aurora trovò una stazione di San Francisco, ma quella si limitò ad esortarla a non telefonare all’azienda elettrica.
«Stanno facendo tutto il possibile per ristabilire il servizio. Ripeto il bollettino con il messaggio del Pentagono: «Il guasto è stato causato da un corto circuito di una centrale nel Nevada, in seguito ad un esperimento di cui non è consentito divulgare la natura, ma che era d’importanza vitale per la sicurezza della nazione. La corrente verrà ridata al più presto possibile’. Questo era il comunicato del Pentagono. E adesso, ve lo ripeto ancora una volta, non telefonate all’azienda elettrica…»
Aurora cominciò a vedere dei veicoli militari parcheggiati sui due lati della strada. Sembravano abbandonati, oppure gli occupanti si fingevano morti. Forse in quello che Mackintosh e il suo compagno le avevano detto c’era del vero, più di quanto avesse immaginato. E la caduta della corrente…
Si portò sul bordo della strada e parcheggiò. Conoscere i potenziali pericoli del Progetto 32 era inquietante, ma vedere concretati quei pericoli era troppo orribile perché potesse rendersene subito conto. Doveva evitare quel pensiero, si disse, spegnendo i fari. Aveva bisogno di contemplare la serenità del cielo.