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Era il più luminoso che avesse visto, dai tempi della fattoria nel Minnesota. Non c’erano luci che nascondessero le stelle, e Aurora si stupì di quel fulgore. C’erano Sirio e Aldebaran, che indicavano le Pleiadi, e Orione. C’erano Castore e Polluce. Lei ripensò alle notti in cui aveva imparato i loro nomi, sbirciando con uno dei telescopi inservibili e pieni di crepe di suo padre.

In quella stagione la fattoria odorava di granturco ed era immersa nel frinire dei grilli… era sempre così, per tre stagioni all’anno. A intervalli irregolari, per tutta la notte, l’unico animale da allevamento della fattoria, il Gallo, si metteva a cantare. Per il Gallo, qualunque momento era l’alba; era come l’orologio rotto sulla mensola del camino e l’orologio rotto del corridoio. Di tanto in tanto, suo padre decideva di aggiustare uno degli orologi, ma lei non li aveva mai sentiti funzionare.

Suo padre aveva inventato una macchina per scuoiare i polli, ma non aveva avuto il coraggio di provarla, neppure sul Gallo, e neppure su qualunque altro pollo. Perciò, sebbene fosse un apparecchio molto bello, e su questo erano d’accordo tutti e due, era finito in mezzo al prato; aveva finito per arrugginirsi, e il Gallo vi si appollaiava per annunciare l’alba alle 11 di notte.

Sul prato si erano aggiunti altri ornamenti, con il passare degli anni. Un pallone aerostatico che perdeva. Una specie di doccia meccanica per gli uccellini, che gli uccellini evitavano. Un modello perfezionato di macchina per cucire. E circa 168 telescopi, il primo incominciato quando Aurora era nata e sua madre era morta, l’ultimo rimasto incompleto diciassette anni più tardi.

Ogni volta, suo padre molava con diligenza le lenti per un giorno o due, poi passava ad altri progetti. Di tutti i telescopi sul prato, l’unico funzionante era quello che suo padre aveva acquistato da un rigattiere e aveva riparato con lo scotch. Con quello, Aurora aveva scrutato il quadrato di Pegaso, Vega e il trono di Cassiopea, le stesse stelle immutabili che adesso guardava attraverso il parabrezza.

Una sagoma nera e orrenda si mise tra lei e le stelle. La portiera dell’auto si aprì e uno gnomo dal collo taurino, in uniforme, salì accanto a lei. Lasciò la portiera aperta per un momento, per vederla meglio.

«Calma, pupa,» ringhiò, agitando una pistola. «Sono il generale Grawk dell’Aeronautica degli Stati Uniti, e non ho mai violentato una donna in vita mia. Non ne ho mai avuto bisogno, se capisce quel che voglio dire. Certo che c’è sempre una prima volta, no? Ahah!»

«Come sarebbe? Scenda dalla mia macchina!» Aurora lo disse con il suo più severo tono professorale. Lui ridacchiò.

«Requisisco questa macchina, signora mia. Emergenza nazionale. Forse avrà sentito che è mancata la corrente dappertutto?» Si puntò il pollice sul petto. «Sono stato io. Comunque, ho bisogno di una macchina con autista, e lei è la prescelta.» Si fece un po’ più vicino. «Non è poi così male, vede.»

Un fievole squittio risuonò sotto al generale.

«Si alzi! Si è seduto sul mio ratto!» gridò Aurora.

Si compì una trasformazione istantanea. Quello che un attimo prima era un piccolo scimpanzé aggressivo, sogghignante, sicuro di sé, urlò e volteggiò per finire sul sedile posteriore. Il corpo di B893 giaceva schiacciato sul cuscino del sedile anteriore. Aurora lo prese per la coda. Era morto. Un sorriso strano le aleggiò sul volto, mentre lo sollevava, rigirandolo nella luce.

«RATTObuttiviaquelRATTOvialontanodaMEbuttiviaquelRATTO!» urlò lui.

«Scenda dalla mia macchina. Subito.»

La canna della pistola le fece schizzar via dalla mano B893 fuori dalla portiera aperta. Grawk ritornò sul sedile anteriore e la guardò con un’espressione mutata, più rispettosa. «Mi è simpatica,» disse. «Non perde la calma, lei. Il suo ratto, eh? Che bell’idea. Ma adesso muoviamoci. Svolti a destra alla prossima pietra miliare.» E sbatté la portiera. Aurora non si mosse.

«Ho un altro ratto in macchina con me,» disse freddamente, assaporando ogni parola. «Vivo.»

«DOVE? Oddio, ce l’ho addosso? Dove?»

«È al sicuro, fuori dalla sua portata, per il momento. Ma se non butta la pistola sul sedile posteriore e non comincia a comportarsi da gentiluomo, questo ratto glielo infilo dentro al colletto!»

«Sta… sta scherzando.» Un lungo silenzio. «Su, non può essercene un altro… c’è?» Un altro lungo silenzio, poi la pistola cadde con un tonfo sul sedile posteriore.

«E adesso, generale, la condurrò dovunque vorrà andare, se mi dice cos’è tutta questa storia.»

«Andiamo al quartier generale del NORAD, nel Colorado. È più sicuro,» disse lui, con voce turbata. «Non posso dirle cosa ci faccio qui… è un segreto.»

«Se ha qualcosa a che fare con il Progetto 32, può dirmelo,» fece Aurora e gli passò la borsetta. «Lì dentro ci sono i miei documenti.»

«Chi è lei?» Il generale frugò nella borsa, tirò fuori una carta e vi puntò contro una lampada tascabile. «Aurora Candlewood, Ph. D. Consulente Psicologico Speciale del Progetto 32. Una bambina come lei? E che significa quel titolone, pupa?»

«Se lei sta per dirmi quello che immagino, significa che il Progetto 32 ha un bisogno disperato della mia presenza.»

«Glielo dico io di che cosa abbiamo bisogno,» fece lui. «Di un bravo ammazzadraghi.»

«Giusto. E adesso, per favore, le spiace dirmi qualcosa di più sul conto del drago?»

Capitolo Tredicesimo

Il viaggio meraviglioso

«Rudis indigestaque moles»

OVIDIO

Mentre la macchina accelerava, a bordo la conversazione rallentava: fino a che, mentre volavano nella periferia della città deserta, i cinque erano piombati in uno strano silenzio.

L’auto sbandò, rallentò, scese sballonzolando sui rulli d’acciaio in un tunnel buio. Cal la sentì sbatacchiata qua e là da getti di vapore e d’acqua: poteva sentire l’odore dell’acqua saponata. C’era lo stridore delle seghe sull’acciaio, e la tenebra fonda esplodeva e lampeggiava di guizzi lividi. In quella luce strana, Cal si accorse di essere solo. Gli altri quattro, la macchina, tutto ciò che gli era familiare era scomparso, tranne il pezzo di sedile cui era ancora legato dalla cintura di sicurezza, che si muoveva in avanti sui binari invisibili verso un appuntamento misterioso.

Attraverso una doppia porta irruppe in una sala invasa da una luce rossosangue, piena di figure mute e ben vestite. Manichini, pensò Cal con un senso di sollievo. Negli angoli, c’erano arti muti e nudi, a mucchi da carnaio. La metà superiore di un manichino, precariamente eretta, scivolò lungo un piano inclinato oleoso, sbatté con la faccia contro la parete e cadde riversa. In lontananza suonò una campana. Gli spruzzatori innaffiarono l’incendio inesistente, mentre delicate turbine idrauliche giravano sotto di loro. Nell’ombra atrosanguigna, la faccia sfasciata e senza naso del manichino ricevette la pioggia.

Brian Gallopini sì ritrovò inesplicabilmente solo, mentre il sedile al quale era legato usciva nell’arida, gialla luce del sole. La luce sfolgorò biancorossa nella sua retina; socchiuse gli occhi per sbirciare i globi. Soli artificiali? No: vasche per pesci rossi, vasche d’oro innalzate sulle leve verso il sole; un’offerta al sole. I pesci rossi galleggiavano a pancia in su.

I gatti strisciavano sui ripiani superiori, e andavano dal nulla al nulla. Alcuni portavano orologi d’oro o d’argento allacciati intorno alla parte mediana del corpo. Uno si soffermò per il tempo sufficiente perché Daisy potesse leggere l’orologio. Non andava bene. Daisy vide la data cambiare, dal 7 all’8, con uno scatto. Il gatto lanciò un breve grido e si mosse più in fretta. Solo allora, lei si accorse che tirava un piccolo barattolo pieno di pezzi di macchina.