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Elicotteri giocattolo a due pale si aggiravano per la sala, intessendo sottili fili di rame in bizzarre trine prive di senso. Jack sbadigliò.

Ogni barattolo sembrava arrugginito quanto bastava per lasciar passare qualche batterio. L’accumulo di gas era terribile, come Harry dimostrò allegramente. Piantò il suo coltello in una scatoletta che gli fece esplodere sugo nero sopra la mano. Lui rise.

«Crauti!» disse. «Crauti marci!»

Cal non rise. «È strano. Quasi tutte le scorte sono andate, e il resto è marcito. In pochissimi giorni. Misterioso. È rimasto qualcosa?»

Harry rise ancora. «Niente di cui valga la pena di scrivere a casa,» disse, affondando il coltello in un altro barattolo, che schizzò fuori ricotta nera e grigia.

Più tardi Cal vide il modo in cui il sistema incorporava quei barattoli esplosivi in una specie di motore a combustione interna, usando un vecchio cilidro d’automobile, e ricaricando otto lattine dopo ogni rivoluzione. Ma in quel momento stava osservando i carrelli da supermarket.

Ferrifere erano le ruote maestose del suntuoso «mostro d’acciaio», o locomotiva, che stava su rotaie di metallo ferrico, lucido e brunito. Appariva possente e, in questo caso, l’apparenza non ingannava, perché in effetti stava sbuffando, impaziente di partire. Il vapore usciva sibilando con insistenza e dava energia alle bielle ironiche, e poi il colosso scendeva su solchi inclinati verso un enorme giro della morte. Salendo tra i ruggiti alla velocità di 180 chilometri orari, il leviatano continuava a fare un giro della morte dopo l’altro. Inserito in un cerchio verticale, alto quattrocento metri, avrebbe continuato così fino a quando non «fosse finito il vapore».

Jack seguiva con gli occhi la locomotiva, aspettando che cadesse. I suoi fari verdazzurri, del colore delle Calliphoridae, splendevano nella foschia pomeridiana. La locomotiva faceva girare una gigantesca manovella, fatta di travi d’acciaio piegate, che aveva come manico un palo telefonico. La manovella muoveva un sistema d’ingranaggi sopra una gru appollaiata sul tetto di un basso edificio, che poteva essere una fabbrica o una scuola.

Gorgogliando, la fila di lavatrici automatiche ricominciò il suo complicato balletto. Ognuna delle tozze lavatrici balzò al suo posto. Se avessero cominciato a muoversi verso di lei, si disse Daisy, si sarebbe messa a urlare. Anche se non sarebbe servito a niente.

Comunque, era un posto come un altro per starsene seduta, a dare un’occhiata a un giornale abbandonato.

IL LANCIO DELLA SONDA PER VENERE

Che idea oscena. Non diceva niente dei movimenti delle lavatrici, notò Daisy. Naturalmente, non c’era un titolo come Entrano in scena le lava-attrici.

Una delle macchine lanciò grandi lingue di fiamma verde.

Quanti cosmetici esistevano per rendere o per conservare belle le donne! Brian Gallopini (Ph. D.) non se ne era mai reso conto. Lì Lady Clinge, la Regina Esther, il Principe Gloriani ed altri nobili si contendevano il privilegio di prendersi cura della superficie delle signore. Ma attualmente facevano a gara per fornire alle grosse macchine simili a scatoloni lubrificanti alla cold cream e carburanti profumati. Una grossa di travi metalliche era stata legata insieme, formando un’elica per azionare un grosso coso a forma di cassa, che le casse più piccole adesso stavano caricando: una specie di gigantesco modellino d’aereo senz’ali. Il modello cominciò a muoversi, maestoso, e uscì dalla facciata sventrata dell’officina, e la sua elica gigantesca frullava sollevando una trina di spuma.

Su di un carro coperto con la scritta WAGONS WEST COCKTAIL LOUNGE, tirato da un cavallo, che si dirigeva lentamente verso est, giaceva un mucchio di figure nude.

«Manichini,» assicurò Harry a Cal.

I due erano in sella a pony meccanici del supermarket, diretti verso ovest. Quando passarono davanti a un casinò in piena attività, Harry indicò gli esseri simili a zombie che stavano dentro. Senza pensare a niente, infilavano monete nelle slot-machines e tiravano le leve. Le ruote giravano, si formavano le combinazioni, ma niente li scuoteva. Non erano macchine, eppure non erano inequivocabilmente umani. Erano i soli elementi di tutta Las Vegas che rimanevano esteriormente immutati, benché al servizio di un nuovo padrone. Con una mano reggevano i club-sandwich e li mangiucchiavano, senza concedersi pause nel loro lavoro.

«Judo,» borbottò Harry in tono d’ammirazione, mentre guardava due scatole grosse come cani che si facevano guerra. «O qualcosa del genere.» Una aveva per scudo un cartello piegato, sul quale era ancora visibile la parola KENO. Kenogenesi? si chiese Cal. Che altro poteva aizzare così un fratello contro il fratello?

La scatola che sembrava un bassotto combatteva con due paia di cesoie tagliafili, mordicchiando le zampe delicate dell’altra, una scatola alta, tipo airedale, che era armata di una sfera di piombo fissata a un bastone e cercava di ridurre il bassotto ancora più piatto. Keno sarebbe riuscito ad accorciare Fido? Oppure Fido avrebbe ridotto Keno alla sottomissione?

Con un ronzio rabbioso si affrettò a intervenire la macchina a raggi X uscita da uno studio di dentista e dipinta di color lavanda. Cal trascinò via Harry prima che entrambi ricevessero una dose letale di radiazioni.

«Kinematografo!» gridò il Professore, ispezionando gli apparecchi a lui sconosciuti dell’officina elettronica. «Fonogramma! Stereofono!» Si fermò davanti a una videocassetta. Poiché non aveva mai visto prima la televisione, Brian si incantò a vedere il vecchio documentario sulla sonda venusiana, che scorreva avanti e indietro come un palindromo.

Da ogni parte sorgevano elaborazioni meccaniche in stile rococò. Daisy le guardava, incapace di concentrare lo sguardo, di comprendere. La vita senza fine di un elevatore di cereali sollevava lungo un piano inclinato una quantità di bocce da bowling e le faceva cadere dalle finestre del secondo piano del casinò. Attraverso fori collimanti, le palle da bowling precipitavano nella cucina del seminterrato dove, poiché la loro energia potenziale si era convertita in energia cinetica, la loro quantità di moto si trasformava in impulsi quando esse urtavano, una ad una, le leve di una pressa. Notte e giorno, la pressa stampava intelaiature d’alluminio per nuove cellule, nuove cellule, nuove cellule. In compagnia dei club-sandwich, le bocce da bowling venivano poi issate al pianterreno a mezzo del montacarichi. I sandwich venivano convogliati su nastri trasportatori fino agli organismi che essi alimentavano e che a loro volta facevano funzionare le dinamo a un braccio, mentre le bocce da bowling rotolavano in un pozzo di caduta, arrivavano sulla strada e venivano caricate sull’ascensore in attesa. L’ascensore era azionato da ingranaggi a orologeria, da un sistema idraulico e, in ultima analisi, dai barattoli di crauti che esplodevano in un’altra parte della città. Questi facevano oscillare i pistoni, girando una manovella che comprimeva l’aria in lunghi serbatoi cilindrici. I cilindri formavano poi i rulli per il trasporto di oggetti pesanti nei dintorni dell’ascensore dove, connesso a motori ad aria, un sistema idraulico e gli ingranaggi tolti dall’orologio di una torre, li faceva funzionare incessantemente. L’energia per modellare le lamiere d’alluminio era fornita dall’evacuazione della riserva d’acqua della città, attraverso turbine idrauliche. L’alluminio veniva fuso in una vasca del reparto animali di un grande magazzino vicino, riscaldata dai raggi del sole concentrati attraverso le vaschette dei pesci rossi. I rottami di alluminio venivano scaricati nella vasca da una catena di gatti.