La scatola avanzò in silenzio, seguendo tutte le mosse del bambino, costringendolo a rincantucciarsi nell’angolo. L’ombra della lama dell’ascia si allungò. Ma all’ultimo secondo si arrestò, misteriosamente sgretolata dalla ruggine.
«No! La luce del sole… non la sopporto! Arrrgghiaaaa!» La Città Perduta viene sepolta da un rapido fiume di lava; la casa schiantata degli Usher scivola nello sciroppo limaccioso della palude; il castello è in fiamme; l’isola misteriosa sprofonda per l’eternità; gli alieni si dissolvono sotto la pioggia. Mentre la testa del mostro affonda fumigando nel calderone d’acido ribollente, nel suo occhio c’è quasi un’espressione di supplica. «Vi sono certi misteri,» intona lo scienziato dai capelli bianchi, «che è meglio lasciare nelle mani della Divinità.» «Grazie a Dio è tutto finito!» singhiozza sua figlia, gettandosi tra le braccia del giovane scienziato e distogliendo lo sguardo dal cadavere dell’invasore alieno. Il giovane scienziato scuote la testa dai capelli tagliati a spazzola, e guarda l’alieno. «Chissà se è finita davvero?» mormora.
Appare la testa del manichino dal naso sfondato, illuminata di rosso, con una distanza enorme tra i due occhi. «Sì, le macchine sanno fare tante cose,» gorgoglia. «Non sei felice di essere una macchina?» Lo schermo si spegne.
L’unico jukebox rimasto di quelli che avevano fatto parte del corteo del professor Gallopini si accende, risplendendo di turbinanti luci colorate. «Ti vedrò nei miei sogni,» promette alle cinque figure in fuga. Dietro di loro, lo schermo gigante ondeggia e crolla.
Capitolo Quattordicesimo
Buono fino all’ultima goccia
«Ecco, nonno, mangia il resto del porridge… Io… io ne ho già mangiato tanto.»
Da dieci miglia di altezza, la cittadina di Millford sembrava un nichelino lucente. Da un miglio, sembrava una crostata. Dalla campagna circostante, sembrava un serbatoio di petrolio dal diametro enorme. Finora, era stato impossibile indurre le pattuglie esplorative a scoprire che aspetto aveva dall’interno. Si pensava che gli abitanti fossero morti o fossero scappati da un pezzo.
Nell’elegante mensa, tutta acciaio inossidabile, del Laboratorio di Ricerche Wompler, non c’era assolutamente niente da mangiare. I Wompler, padre e figlio, erano sdraiati su due tavoli paralleli, troppo deboli per muoversi. Grandison girò la faccia sparuta per guardare il figlio che stava leggendo una rivista.
Già il primo giorno avevano mangiato tutto il ketchup e la mostarda… e per la verità, era stato Louie a mangiare quasi tutto. Poi non avevano più trovato niente, salvo le briciole delle Proteine Sooper scovate nelle tasche della giacca di Louie… e anche di quelle, il grassone aveva fatto la parte del leone. Adesso stava divorando con gli occhi la rivista, specialmente le bellissime foto di manicaretti.
Non era giusto, pensò Granny, mentre notava quant’era grasso suo figlio. A Louie non doveva dispiacere troppo di separarsi da una fettina di quel lardo. Oppure, se gli dispiaceva, Grandison poteva attendere che si fosse addormentato. In cucina c’erano dei coltelli bene affilati…
«Ehi, papà! I polli hanno dato ancora qualche uovo?» chiese Louie, levandosi a sedere con uno sbadiglio. E mosse le ampie spalle carnose, stirandosi con finta stanchezza.
I polli — il pollo - era un uccello sparuto appollaiato su un lampadario, fuori dalla loro portata. Di lassù aveva continuato a tentarli per due settimane. Non scendeva mai a portata di mano, non cadeva morto di fame, non deponeva uova… non «dava» uova, come diceva Louie. Per tutto piumaggio, aveva un ciuffo lacero di fili multicolori che gli penzolava dal collo: era senza penne. Ciangottava sommessamente tra sé, giorno e notte, con un ritmo regolare. Dopo un po’, Grandison aveva cominciato ad avere l’impressione di avere un grillo infilato nell’orecchio. Qualche volta avrebbe preferito vedere il pollo andarsene, a costo di rinunciare a mangiarlo, altre volte si convinceva che era un’allucinazione. Ma l’uccello, con aria contenta, lo fissava di continuo con il suo occhio lucente. E ciangottava.
«Non ha fatto l’uovo, figliolo, e temo che non lo farà. Temo che quello sia un gallo.»
«Oh, Papà, come conosci bene le scienze naturali. Cosa c’entra un gallo con le uova?»
Granny sospirò. Alzò gli occhi, aguzzandoli, verso l’uccello, cercando di indovinare il sesso. Di solito, la sua conclusione dipendeva dall’umore. L’uccello scrollò la cresta con aria di sfida. Decisamente, era un gesto da gallo.
Louie stiracchiò le costolette-con-lardo e sbadigliò, mettendo in mostra due etti di lingua. Dopo essersi frugato con diligenza le tasche in cerca di briciole, tirò fuori il suo dinamometro e lo premette.
«La mia forza aumenta man mano che il peso cala,» disse. Dopo aver letto il dinamometro, appoggiò il braccio su una bilancia da carne e lo pesò. «Quando peserò ventidue chili, avrò una presa da quattrocentocinquanta chili! Caspita!»
Grandison immaginò quel braccio amorosamente tolto dalla bilancia, avvolto in carta rosa su cui una matita scarabocchiava il prezzo. Vide le grasse dita bianche che friggevano in una padella.
Il pollo lanciò un grido, poi un secondo.
«Incrocia le dita, figliolo,» mormorò il vecchio, levandosi a sedere senza far rumore. «Forse stasera potremo mangiarci una frittata.»
Il suono diventò un cluck-cluck regolare, e l’uccello barcollò vertiginosamente sul sostegno. Una lucente superficie ovoidale occhieggiò sotto l’elica di coda. «Tienti pronto ad afferrarlo al volo, figliolo!»
«Lo prendo. Papà. Lo prendo, lo prendo, lo…»
Louie si buttò in tuffo mentre l’ovoide cadeva, ma la fame gli aveva rallentato i riflessi. L’uomo gli scivolò tra le dita e piombò sul pavimento.
E rimbalzò.
Al piano di sopra, nel laboratorio, Kurt e Karl Mackintosh eseguivano il loro lavoro muovendosi speditamente, senza scontrarsi mai, parlandosi di rado, sorridendo sempre, come due statue a orologeria. Con la loro collaborazione, il Sistema li aveva dotati di energizzatori idraulici alle braccia e alle gambe che moltiplicavano velocità e forza. Gli energizzatori erano foggiati come pezzi aderenti d’armatura; guanti, braccioli, cosciali, gambali e copripiedi, attivati da pompe elettriche e da pistoni idraulici. I regolatori a tensione, inseriti nei muscoli di Kurt e di Karl, azionavano le pompe. Sebbene non lo dicessero mai, Kurt e Karl si sentivano due superuomini, nelle loro nuove armature. Cigolavano e sferragliavano aggirandosi nel laboratorio, soddisfatti della vita. Amavano tanto lavorare che il Sistema li aveva dotati anche di un impianto automatico di alimentazione per fleboclisi.
In cambio, i due eseguivano nuovi esperimenti su simbiosi animale-macchina. Seguendo gli ordini del dottor Smilax, trasmettevano direttamente tutti i risultati al Sistema, per mezzo di una tastiera che stava in un angolo. Inoltre, gli insegnavano i rudimenti della psicologia del comportamento, dell’economia keynesiana, della teoria dell’informazione, e gli mostravano come doveva semplificare i programmi.
Kurt e Karl si identificavano accostando l’orecchio destro a una piastra metallica. Si sintonizzavano con il Sistema, preparandolo a ricevere le loro informazioni.
Quando lavoravano bene, c’erano delle ricompense.
Quando lavoravano male, c’erano delle punizioni.
La ricompensa era l’accensione di un cartello luminoso con la scritta: «BRAVO!»
La punizione era una lieve ma sgradevole scossa elettrica.