Lasciò che la figura lo superasse e passasse un po’ oltre, poi premette il grilletto. Il primo colpo silenzioso fece tremare il casco dell’uomo; i due successivi gli distrussero completamente la testa.
Vetch si affrettò a procedere verso il luogo del lancio senza fermarsi a guardare il corpo dell’ultimo proletario che avrebbe avuto occasione di vedere.
Suggs rimase sorpreso nel vedere un’altra figura in attesa accanto alla rampa di lancio segreta, con addosso una tuta spaziale come la sua. Nella sua mente si levarono spettri non evocati, ma egli li scacciò. No, doveva essere Beele. Era strano che il suo giovane aiutante se la fosse cavata così bene. Doveva aver liquidato un paio di russi, lungo il percorso… e a mani nude! Lo spaventava un po’ l’idea di salire a bordo dell’astronave insieme a quell’uomo.
Suggs alzò entrambi i pollici per segnalare che andava tutto bene e la figura rispose al segnale. Era Beele, ovviamente. Suggs scrutò attentamente il razzo, camuffato con tanta astuzia. Dunque era così che ce l’avevano fatta quei furbi mangiaranocchi! Doveva riconoscere che erano in gamba, i bastardi.
Vetch rimase sorpreso nel vedere un’altra figura che arrivava alla rampa di lancio, con addosso una tuta spaziale come la sua. Nella sua mente si levarono spettri non evocati, ma egli li scacciò. No, doveva essere il cameriere, naturalmente. Come se gli leggesse nel pensiero, la figura fece un gaio segnale con i pollici in su, come si conveniva a un esponente della classe lavoratrice, e Vetch rispose con tutto il cuore. Certo, era il cameriere! Il robusto contadino aveva giocato i porci capitalisti che credevano di essere i suoi padroni.
Vetch scrutò attentamente il razzo, camuffato con tanta astuzia. Nelle sue orecchie, il count-down (con la voce cantilenante d’un registratore) era arrivato a quatre-vingt dix-neuf. Vetch si agganciò meticolosamente la cintura di sicurezza.
«Ehi, uomo, questa sì che è roba buona,» disse Ron. Lui e Kevin Mackintosh erano stravaccati sulle sdraio, su di una terrazza buia da cui si contemplava quasi tutta la città. Sorseggiavano tè alla menta per placare la sete data dal kif. «Questa sì che è roba buona,» ripeté.
Kevin annuì, infastidito. Gli sarebbe spiaciuto dover dire a Ron che un vero fumatore di kif non diceva mai che quella era roba buona.
«Ehi,» disse Ron, indicando con un gesto pigro oltre la balaustrata della terrazza. «Ho appena visto due marziani, giù per la strada.»
Marziani, Cristo! pensò Kevin. «E cosa facevano?» chiese, in tono sognante.
«Si sparavano, uomo. Come nella Notte dei Fallopodi, sai? Come nell’Invasione dei dischi volanti. Erano tutti d’argento, con grosse teste bianche. Si sono sparati con delle pistole a raggi che non facevano rumore. Uno ha ammazzato l’altro. E poi lo ha scuoiato.»
«Sì? Come nella Cosa venuta dal Vuoto?»
«Sicuro, e poi dopo ne ha ammazzato un altro ancora. Il corpo è ancora laggiù.»
Kevin si sporse dal parapetto e guardò giù. C’era un corpo inerte, dalla pelle argentea. Era senza testa. Un brivido di gelo lo invase. Era proprio come in Io, il mostro minorenne dalla spiaggia. Mantenendo un’espressione disinteressata, Kevin tornò a sdraiarsi. In quel momento, la terra cominciò a tremare. A pochi isolati di distanza, si accese una batteria di riflettori. I tremori crebbero d’intensità, facendo tintinnare i bicchieri di tè sui piattini.
«Vedi anche tu quello che vedo io?» gridò Ron. «Lo vedi?»
«Uomo, certo che questa è proprio roba buona,» mormorò Kevin, spalancando gli occhi sbalordito.
Un minareto si innalzò lentamente nell’aria, sorretto da una colonna di fiamma.
Capitolo Sedicesimo
Il cuore segreto del dott. S.
«Sono costretto a compiere su me stesso, nella completa oscurità, operazioni di delicatezza estrema.»
«L’onore non è un abile chirurgo, dunque? No.»
La simmetria perfetta del corpo di Susie Suggs era in equilibrio sull’orlo del lettino di fintapelle nera, che era l’unico mobile della stanza. Susie non piangeva più, ma un cipiglio insolito turbava la sua fronte… tuttavia anche quel cipiglio era perfettamente simmetrico. A scatti ritmici, gli stivaletti bianchi battevano contro il lato del lettino. Quando si accorse di aver rosicchiato via lo smalto da un’unghia, cominciò a lavorare sull’altra.
Il dottor Smilax non soltanto aveva appreso tutto ciò che poteva apprendere sul conto di Susie Suggs, grazie al contenuto della sua borsetta e dal fascicolo personale del Servizio di Sicurezza intestato a suo padre, ma l’aveva anche studiata piuttosto a lungo attraverso uno spioncino. I suoi movimenti, aveva osservato, erano svelti ma aggraziati; era impulsiva, ma generosa e ansiosa di piacere. Dopo avere indossato un camice bianco ed essersi infilato in tasca uno stetoscopio, il dottor Smilax aprì la porta ed entrò nella stanza.
«Io sono il dottor Smilax, mia cara,» disse senza sorridere, sedendole accanto per auscultarle il polso. «E lei è Miss Susan Suggs di Santa Filomena, California. È esatto? I suoi amici la chiamano Susie?»
«Sì?» La voce di lei era rauca per la paura; cercò di tirar via la mano. Smilax le imprigionò il polso.
«Su, non ho intenzione di farle del male, mia cara. Voglio solo visitarla.» Il suo tono aveva raggiunto l’esatto equilibrio tra la premura e il brusco comando.
«Ma io non voglio farmi visitare. Non ho bisogno di farmi visitare. Non sto male. Sono solo svenuta quanto mi hanno arrestata.»
Smilax le lasciò la mano dopo un momento, e nello stesso tempo un sorriso gli circondò gli occhi di grinze. «Certo, se è così che preferisce. Si sente bene, vero?» Susie annuì. «Magnifico, allora. Avevo quasi sperato che ci fosse qualcosa che io potevo fare…» Abbassò la voce e assunse un’espressione vacua, fissando la parete color oliva.
«Vede,» proseguì dopo un attimo, «non c’è molta soddisfazione, ad essere un medico militare. Assisto alle morti, ecco tutto. Io… io certe volte non so come ce la faccio a tirare avanti, quando penso a quei poveri uomini che salvo… solo per mandarli fuori a farsi uccidere!»
«È spaventoso,» mormorò lei. Smilax si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro.
«Sì: l’Esercito non si considera come un’organizzazione umana, bensì come una macchina. Gli uomini non sono umani, ma solo rotelline… cellule di un grande organismo.»
Senza sapere perché, Susie arrossì a quella parola.
«Darei qualunque cosa per non essere costretto a farlo… ma deve pur farlo qualcuno!» esclamò lui, appassionatamente. Tornò a sedersi di peso e nascose il volto tra le lunghe, sottili mani d’artista. «Deve farlo qualcuno!»
«Oh, come mi dispiace,» disse Susie, posandogli sul braccio una mano esitante. Lui finse di non accorgersene. «Non sapevo…»
«No, è naturale. Per lei, per tutti coloro che si trovano al di fuori di tutto questo, noi siamo mostri… macchine che possono continuare a lavorare all’infinito, compiendo miracoli a comando, senza neppure una parola di ringraziamento, senza un pensiero gentile, senza uno solo di quei piccoli tocchi d’umanità che rendono la vita degna d’essere vissuta. Ma noi non siamo mostri! Le sembro un mostro? Davvero?» Smilax sapeva benissimo che, in quel momento, lui aveva l’aria di un orfanello dai capelli grigi.