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«Diavolo, sono io che comando la maledetta baracca!» esplose Grawk. «Sono il comandante, qui, e devo andare nel mio ufficio!»

«Nei nostri schedari non figura nessun generale Jupiter Grawk,» disse soave la voce. «Ho ricevuto esattamente la sua identificazione? In tal caso, prego, appoggi le dita sulla lastra di vetro alla sua sinistra, e le tenga ferme finché la luce si spegne. Grazie.»

«Credo proprio che ti si siano incrociati tutti i fili, pupa!» tempestò Grawk. «Sono io il capo di questa baracca, e tu non sei altro che una macchina!»

«Ho ricevuto esattamente la sua identificazione? In tal caso, prego, appoggi le dita sulla lastra di vetro alla sua sinistra e le tenga ferme finché la luce si spegne. Grazie.»

Grawk marciò a grandi passi fino alla lastra e vi appoggiò le dita. Un raggio di luce si mosse sul vetro.

L’altoparlante ronzava e crepitava. Poi ne uscì una voce nuova, la voce rauca e rabbiosa di un sergente. «Dunque, Grawk, che scherzo sta cercando di combinare?» ringhiò. «Sa maledettamente bene che è stato degradato ad aviere di terza classe. È stato automatico, quando ha fallito l’Operazione Sedia Elettrica. Perché si sta spacciando per un ufficiale, eh?»

Il sigaro, di colpo, s’inclinò verso il basso. «Be’, certo che lo sapevo, ma pensavo… di solito occorrono parecchie settimane per una retrocessione e…»

«E lei ha pensato di insinuarsi qui dentro, fregare un po’ di schedari Top Secret e filarsela al Messico, eh? Bene, Grawk, si sieda lì con la sua amichetta e aspetti, mentre i pezzi grossi decidono cosa fare di voi.»

«Io vorrei andarmene,» disse Aurora, con voce sommessa e spaventata.

«Stia lì buona, Miss!» ruggì il sergente invisibile. «Voleva entrare ed entrerà… forse! Ma stia certa che non passerà finché i pezzi grossi non daranno il benestare. Sedetevi!»

Un paio di sedili pieghevoli uscì dalla parete. Aurora e Grawk sedettero, impacciati. Non c’era da guardare che l’altoparlante silenzioso e le truci canne retrattili delle mitragliatrici.

Il dottor Toto Smilax era troppo nervoso per attendere che Susie riprendesse i sensi. Teso come uno sposino novello, si ritirò, lasciandole una camicia da notte da ospedale e un biglietto: «Mia cara, se decide come io spero, indossi questa camiciola e suoni il campanello per chiamarmi. Se no, è libera di andarsene. La porta non è chiusa a chiave.»

Poi la chiuse dentro a chiave e andò nel suo studio ad attendere. Lì, come in tutti i suoi uffici, Smilax aveva installato un’elegante poltrona da dentista, perfettamente equipaggiata. Il suo passatempo preferito consisteva nell’otturarsi e nell’estrarsi i denti.

Quel giorno, però, si trapanò un molare sbadatamente per qualche istante e poi, con uno scatto di petulanza, spezzò il trapano. Se lei avesse acconsentito! Avrebbe potuto averla in ogni caso: ma quanto è più dolce il premio che si concede liberamente! Sviluppò la radiografia e l’esaminò. A molti chirurghi non capitava di mettere i ferri su una cosa del genere in tutta la loro vita, pensò. E la sua impazienza crebbe.

Poi suonò il campanello.

Mentre la sistemava sul tavolo operatorio, il dottor Smilax si accorse che le guance della ragazza erano bagnate di lacrime.

«Che c’è, mia cara? Ha paura che sia una cosa… sbagliata, quella che fa?»

«Non… non so.» Susie sospirò, poi sorrise tra le lacrime. «Ho un po’ di paura. Vede…» Arrossì, graziosamente, e si sarebbe coperta la faccia con le mani, se le avesse avute libere. «Vede, non ho mai subito un intervento chirurgico. È la prima volta.»

«Capisco,» disse lui, allacciando le cinghie di cuoio.

«Mi prometta,» disse Susie, «mi prometta che sarà delicato.»

Smilax si chinò per baciarle la fronte liscia da bambina quando in distanza suonò un allarme. «Debbo lasciarla per un attimo,» bisbigliò, roco. «Ma tornerò subito.»

«Potete procedere,» cantilenò l’altoparlante con una terza voce, neutra e burocratica. «Prendete gli ascensori quattro e cinque, prego.»

La paratia davanti a loro si spalancò, e Grawk ed Aurora si avviarono verso la fila degli ascensori.

«Perché dobbiamo usare due ascensori?» chiese lei.

La spiegazione di Grawk fu autoritaria come al solito, ma i suoi modi erano un po’ più blandi. «Sono ascensori monoposto,» disse. «Possono portare centoventi chili al massimo. Serve a evitare che qualcuno porti dentro una bomba… o si porti a casa un computer. Lei prenda il quattro, io il cinque.»

Non senza qualche presentimento spiacevole, Aurora entrò nella minuscola cabina e chiuse la porta. La luce in alto si accese, e la gabbia piombò giù per un pozzo argenteo. Non c’era nient’altro, e dopo un po’ lei non ebbe più la sensazione del movimento; sembrava che fosse il muro dietro le sbarre a salire, mentre lei restava immobile.

Cominciò la decelerazione, e all’improvviso la luce si spense. La gabbia si fermò. Quando Aurora cercò di aprire la porta la trovò ancora bloccata, e scoprì anche qualcosa d’altro.

La sua mano passò tra le sbarre e non incontrò la parete d’acciaio, niente di niente. A quanto pareva, era sospesa nel vuoto.

«Ehi!» gridò la voce di Grawk, così vicina che la fece sussultare. «Ehi, tiratemi fuori di qui!»

«Butti giù la pistola, Grawk!» ordinò una voce che echeggiava da tutte le direzioni. Qualcosa tintinnò sulla pietra o sul cemento, più in basso.

Si illuminò una lunga vetrata color ambra, rivelando quella che sembrava la cabina di regia d’uno studio televisivo. Dentro non c’era nessuno. Nello stesso tempo, due potenti riflettori inquadrarono le due gabbie, illuminando ogni particolare all’interno.

«Lei non è il generale Grawk,» proseguì la voce con pesante sarcasmo. «Lei è l’aviere di terza classe Grawk, e si sta spacciando per un ufficiale. Butti giù tutti i segni distintivi del grado, e in fretta.»

Grawk obbedì: quel procedimento trasformò il brutto omiciattolo in un orrendo gnomo lacrimoso. «Non posso tenere il berretto come ricordo?» gemette. «Mi piace tanto portarlo. Lo porto sempre, anche quando vado a…»

«Lo butti giù! È un reato per un aviere anche pensare di portare un berretto con le fronde d’argento sulla visiera.»

Sospirando, Grawk lanciò il berretto nelle tenebre sottostanti. Era così basso che Aurora, nella sua gabbia parallela lontana sei metri, poteva vedere chiaramente la sua calvizie, rossa di vergogna. «C’è il Capo, qui?» chiese, stordito. «Credevo che adesso fosse a Washington.»

«Il generale Ickers è effettivamente a Washington, ma lei è sottoposto all’autorità del dottor Smilax.»

«Smilax!»

«Ho sentito fare il mio nome,» disse il dottore, entrando in quel momento nella cabina. «A parlare del diavolo, eh? In effetti, aviere Grawk, adesso lei fa parte del personale alle mie dipendenze… come soggetto sperimentale.»

«Ma come…»

«L’ho vinto, diciamo, al generale Ickers. Cioè, dopo che abbiamo finito una seduta di gioco dell’oca durata tutta notte, lui mi doveva trentacinque cents. Be’, per non cambiare un dollaro… Capisce?»

«E io, dottore?» chiese acida Aurora. «Ha comprato anche me?»

«Ah, no, dottoressa Candlewood. Mi dispiace veramente di doverla ricevere così, ma lei è arrivata in compagnia poco raccomandabile. Mi permetta di farla scendere.» Smilax premette un pulsante e la gabbia calò lentamente verso il cemento. Appena toccò il pavimento, la porta si aprì. Smilax, con un gesto, l’invitò ad entrare nella cabina di controllo e le aprì la porta.

La stanza era piena di apparecchi elettronici che Aurora non riconobbe. E lì c’era l’uomo di mezza età, dall’aria mite, che diceva di chiamarsi Smilax, e che sembrava quasi un alchimista tra i suoi strumenti magici.