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Il pneumatique diceva: «BRIOCHE CI CAUSA PROBLEMI DI PRESTIGIO. OCCUPATI DI LUI. QUALUNQUE CIFRA RAGIONEVOLE FINO A UN MILIONE DI NUOVI FRANCHI. IN ALTERNATIVA USA TRATTAMENTO SPECIALE. CAPO. P.S. TUA RICHIESTA CINQUANTA NUOVI FRANCHI PER SPESE RESPINTA.»

Beele dimenticò persino il disappunto per il P.S., quando si rese conto, con un guizzo di felicità, del pieno significato di quelle due parole magiche: trattamento speciale. Era un eufemismo usato per la prima volta per indicare la punizione dei lavoratori forzati nella direttiva di Himmler del 1942:

In caso di gravi infrazioni disciplinari, compreso il rifiuto di lavorare o la neghittosità sul lavoro, si richiede il trattamento speciale. Il trattamento speciale è l’impiccagione. Avrà luogo a distanza dal campo, ma un certo numero di prigionieri dovrà assistere al trattamento speciale.

Naturalmente, il significato si era ampliato fino a includere tutte le uccisioni. E quanti tipi c’erano! Gli sembrava quasi di vedere Suggs che li elencava, godendoseli quasi come una vecchia si gode l’elenco dei suoi malanni.

«Quando ammazzo qualcuno,» soleva dire Suggs, «mi piace fare in modo che soffra il più possibile. Non è che sono un sadico o qualcosa del genere, capisci? È solo che… so che ti sembrerò un po’ duro, ma mi dispiace permettere che un tale se ne vada da questo mondo pensando che io sono un molle. Capisci?»

Barthemo si rattristò un poco al pensiero di Suggs, che in quel momento era chissà dove, nello spazio. Come si sarebbe divertito con quel trattamento speciale! Buon vecchio Suggs! Mentre Beele si piegava sul messaggio, il suo triste naso sottile lasciò cadere una goccia d’acqua sulla carta, come se versasse una libazione alla memoria di Suggs prima di riempire la gola di Beele di un liquido caldo e salato.

«Tocca a te muovere,» disse Vetch, sbadigliando. «La regina è in pericolo.»

«Lo vedo, lo vedo!» scattò Suggs, scostando con una pacca il dito puntato dell’altro. Era la sola cosa che poteva fare per trattenersi dal tirar fuori la pistola e…

Ma adesso c’erano troppe ragioni per non uccidere quel compagno di viaggio. C’era stato un momento terribile, all’inizio, quando si erano tolti i caschi e si erano scoperti a vicenda, come uno scorpione e una scolopendra nello stesso nido. Entrambi avevano afferrato le pistole, ma, con quel perfetto tempismo che deriva dalla professione di spia, entrambi erano riusciti a trattenersi (a fatica) dallo sparare.

Nessuno dei due ci teneva a scoprire cosa poteva fare un proiettile all’involucro che conteneva la loro atmosfera, o agli strumenti di cui potevano solo intuire nome e funzione. E poi, a che serviva sparare a meno di due passi, dato che non ci sarebbero stati superstiti?

Avevano concluso una tregua imbarazzata, poi un autentico accordo per aiutarsi reciprocamente a cavarsela. Per due giorni, mentre continuavano a chiedere ordini via radio, non avevano dormito.

Poi venne una fase anche peggiore. Suggs aveva ricevuto gli ordini in codice: IMPERATIVO CHE TU NON SIA UNICO PASSEGGERO VIVO QUANDO ASTRONAVE RITORNA. A TUTTI I COSTI TIENI IN VITA ALTRO PASSEGGERO A RISCHIO DI TUA STESSA VITA. SITUAZIONE INTERNAZ. DELICATA, POTREBBE SCATENARE GUERRA SE RITORNI SOLO.

Suggs non dubitava che anche Vetch avesse ricevuto ordini identici. Quel che era successo era chiaro: la Francia aveva dichiarato guerra al colpevole, chiunque fosse stato, ma per ora non c’era ancora modo di provare chi c’era a bordo. Se tanto la Russia quanto gli Stati Uniti erano colpevoli del furto, la dichiarazione di guerra della Francia non avrebbe avuto senso. Ma se uno dei due era implicato da solo, l’altro avrebbe dovuto precipitarsi ad aiutare la Francia… e se un paese con supermissili come quello attaccava gli Stati Uniti, la faccenda sarebbe finita in fretta.

Il russo aveva già tentato una volta di suicidarsi, quando credeva che Suggs dormisse. I due uomini dovettero ricominciare a vegliare, ma adesso per ragioni diverse. Ognuno dei due restava sveglio per il timore che, se si fosse assopito, al risveglio si sarebbe potuto trovare solo a bordo. Due uomini, che i governi delle due nazioni più potenti della Terra avevano addestrato a uccidere; due uomini che amavano uccidere più di qualunque altra cosa al mondo, adesso subivano le pene dell’inferno per tenersi reciprocamente in vita.

Squillò un cicalino, annunciando la fine di un altro turno di otto ore. Qualunque altro paio di astronauti avrebbe fatto turni alternati, avrebbe vissuto in una specie d’equilibrio, senza paura e senza tensione. Ma quei due piegarono la scacchiera e spiegarono il tabellone del Monopoli. Non dormivano da cinque giorni, e si muovevano torpidi, a fatica.

In pochi minuti dimenticarono a chi toccava tirare i dadi, e in toni sommessi, lagnosi, apatici, cominciarono a discutere.

Capitolo Diciottesimo

Cupidigia

«È questo il giorno in cui, a tutti i miei amici, annuncerò le felici parole: ‘Siate ricchi!’»

BEN JONSON

Il fumo si levava in spire untuose, all’orizzonte, da quello che un tempo era stato un cimitero d’automobili. Il Sistema Riproduttivo stava cercando di costruire un convertitore Bessemer, guidato solo dal ricordo del diagramma su un’enciclopedia. I nostri cinque viaggiatori, svegliandosi nell’ombra rugiadosa dello schermo sfasciato del cinema drive-in, non lo sapevano, e non sapevano che un’altra parte del Sistema stava inviando in giro delle unità… in cerca di acciaio.

Il Sistema, nell’area di Las Vegas, si trovava alle prese con parecchie carenze, e quella dell’acciaio era la più grave. In tutti i barattoli di latta, le travature, le automobili, gli elettrodomestici e i fermaglietti per fogli che si trovavano in città non c’era abbastanza acciaio per soddisfare il suo appetito che cresceva in progressione geometrica. Le strade erano sparse di tentativi abortiti, cellule ricoperte di stoffe inamidate, di vetro, persino di mattoni. Preso da un vago panico, il Sistema aveva inviato delle cellule sempre più lontano dalla città, a recuperare il filo spinato delle recinzioni, le macchine agricole… qualunque cosa. Le cellule più vicine cominciavano a portare bottini sempre più miseri in confronto all’investimento d’energia e di materiale, e le cellule che si spingevano più lontane impiegavano tanto tempo a procurare qualcosa, che il Sistema doveva aver temuto di stare per morire a Las Vegas.

Ignaro di tutto ciò, Jack divise quel che restava della sua pagnotta, e i cinque fecero colazione. Cal riconobbe sulle facce dei suoi compagni l’espressione dei sentimenti che erano suoi; tutti sedevano in silenzio, masticando, con un’aria stordita e indignata sui volti insonnoliti.

«Avrei una proposta,» disse. «Senza la macchina, è inutile che tentiamo di riattraversare la città. Sappiamo com’è: più ospitale per le macchine che per gli esseri umani. Propongo di avviarci nell’altra direzione. Già un pezzo di strada l’abbiamo fatto.»

«Ma vi è il deserto!» esclamò Brian. «Non abbiamo viveri, né macchine, né acqua, né…»

«Né liquori,» aggiunse Daisy.

«Né Bergamot. In breve, lei ci chiede d’addentrarci impreparati nel deserto, senza la benché minima speranza di reperir ciò che necessita al sostentamento della vita.»

Harry annuì, mentre si risvegliava il suo sorriso sarcastico. «Oh, ha un gran senso dell’umorismo, quel Cal,» disse. «Cal fa sempre un mucchio di scherzi.»

«Aspetta un momento.» Cal si alzò e indicò l’autostrada. «Ho notato che, mentre ce ne stavamo qui seduti, tre veicoli sono arrivati da quella direzione: due automobili e una mietitrebbia. Dovremmo poter trovare un passaggio. Non intendevo dire che bisognava andare a piedi.»