«Ecco.» Daisy prese la pistola offrendo in cambio un budino pronto alla cioccolata prelevato dal suo sacco di provviste. Brian prese la pistola e la infilò in una delle tasche della giacca, mentre Daisy scoperchiava il bicchiere del budino per il giovane Marine.
«Chi è lei?» chiese Daisy alla sentinella. «E cosa ci fa qui, poverino?»
«Non dirò altro che nome, grado e numero di matricola,» rispose quello, addentando imbronciato il secondo budino pronto.
«Ce la fa a camminare, se l’aiutiamo noi?» domandò Cal.
«Io resterò qui finché non verranno a darmi il cambio!»
Il Marine fu incrollabile. Dopo una consultazione, nel corso della quale Brian lo definì «cucciolo pertinace», i tre divisero le provviste in quattro parti, gliene lasciarono una, e si avviarono per i corridoi tortuosi, sempre più depressi.
L’edificio sembrava completamente deserto. Cal non riuscì a smuovere la porta della mensa, che lasciava filtrare un liquido freddo e untuoso.
Salirono al piano di sopra, dove il corridoio semibuio era rivestito di rozze lastre di ferro. Nel pavimento erano stati scavati due solchi paralleli, per ragioni inspiegabili.
«È spaventoso,» bisbigliò Daisy, guardando le pareti scagliose. «Non c’è anima viva da nessuna parte.»
«Arte,» sospirò l’eco in fondo al corridoio. C’era silenzio, a parte un lieve sgocciolio d’acqua, in lontananza.
«Andiamo da questa parte,» fece Cal. «Il laboratorio è l’ultima sala in fondo al corridoio, sulla destra.»
«Amo, arte, oratorio, ala, destra,» fremette la liquida eco, che ripeté il suono dei loro passi quando arrivarono in fondo al corridoio buio e aprirono una porta.
Un fulgido chiarore fluorescente filtrò sul pavimento butterato dalla ruggine e scintillò sui solchi gemelli.
«Ehi, c’è qualcuno?» gridò Cal.
Puntando un dito tremante verso l’angolo della sala, Daisy disse: «Sì e no.»
Quando si fermavano, erano totalmente immobili, e quando si muovevano lo facevano con tale guizzante velocità e precisione che era impossibile scambiare per esseri umani quelle due figure corazzate. Erano identici, con teste grandi e squadrate, e tubi catodici al posto delle facce. Si muovevano con agilità inumana nel silenzio assoluto, svolgendo mansioni di cui Cal poteva solo cercare di indovinare la natura. Portavano i rossi distintivi d’identificazione di Kurt e Karl Mackintosh.
Evitando i tre umani come i pipistrelli evitano gli ostacoli, virarono elegantemente, pattinando senza cambiare velocità. Ora uno portava una provetta fumante a una centrifuga, mentre l’altro manovrava un quadro di comandi per controllare gli apparecchi. Uno corse a una tastiera e batté, a velocità abbagliante:
11011 L’ALTA GRAVITÀ INCLINA IL BICCHIERE
11012 IL TOROIDE DI FERRO CONSERVA LE PROPORZIONI MENTRE SI ESPANDE
11013 L’AUTISTA DEL CAMION HA TORTO
11014 AE2 PIÙ BE2 EGUALE CE2
11015 DEFINIZIONE: (NON FORARE O INCENERIRE) SIGNIFICA (NON FORARE) E (NON BRUCIARE) E (NON FORARE E BRUCIARE)
11016 L’OLIO GALLEGGIA SULL’ACETO
11017 GIÙ È TALVOLTA NELLA DIREZIONE DELLA GRAVITÀ
11018 KWALITEIT, HOE WORDT DIE GEMETEN?
11019 CAPPELLO: TESTA = SCARPA: PIEDE
11020 MILL, JOHN STUART (1806-73): FILOSOFO ED ECONOMISTA.
Nello stesso tempo, l’altro cominciò a scrivere numeri ed equazioni su di una bizzarra tabella di rame, servendosi di uno stilo. Stilo e tabella erano collegati alla parete da cavi elettrici.
Ogni tanto una delle due figure si rivolgeva all’altra e mostrava sullo schermo facciale una serie di numeri. Altrimenti, pareva che i due non conversassero, e che non ce ne fosse bisogno, perché si aggiravano agilmente in quello che pareva quasi un balletto d’ordine e d’armonia. Quando avevano finito un passo o una procedura, le aperture rotanti sopra le loro teste si giravano verso il quadro di una console in fondo alla sala, ma non appena quello illuminandosi mostrava la scritta BRAVO, il balletto riprendeva.
«Sbalorditivo e bellissimo,» mormorò il Professor Gallopini. «Rinuncerei volentieri alla mia vita criminosa pur d’apprendere come funziona tal macchina prodigiosa.»
«E io darei parecchio pur di sapere come spegnerla,» fece Cal, guardandosi intorno sbigottito. «Non riconosco nessuna delle apparecchiature che avevo viste qui. Se il Sistema si può metamorfosare così in fretta…»
«Metamorfosare? Ah, sì,» disse Brian, guardandosi intorno con un sorriso. «Il metallo trascende se stesso. Questi automi squisiti ricercan l’equilibrio, così come la Terra ricerca di divenire una sfera perfetta, e l’universo diviene sempre vieppiù ordinato.»
«Che buffi, quei robot!» osservò Daisy. «Hanno le orecchie di ghisa! E non hanno la bocca!»
«Né le bocche occorron loro,» insistette Brian. «Questi sono gli uomini di domani! Questi sono gli eredi della Terra! Questi son gli Übermensch, gli equilibristi, i dinasti!» E protendendo le braccia verso i robot indaffarati, declamò: «Uomini del futuro, noi che stiamo per estinguerci vi salutiamo!»
Senza dar segno di aver sentito il suo discorsetto, le due macchine eseguirono il loro nuovo compito. Una aprì la porta del laboratorio, l’altra sollevò Brian Gallopini e lo depose, in piedi, nel corridoio. Prima che Cal e Daisy potessero fare commenti, subirono un trattamento analogo.
Adesso il corridoio era tutt’altro che buio e tutt’altro che silenzioso. Una fila di tubi fluorescenti lungo il centro del soffitto lo illuminava in tutta la sua lunghezza, mentre c’era un rombo profondo, terribile e assordante, che trasformava in cembali pavimento e pareti. Ben presto divenne così forte che i tre non ebbero neppure il tempo di chiedersi cosa significava. Poi la parete di fondo del corridoio si aprì come una tenda, e il muso di un’enorme locomotiva a vapore avanzò rombando verso di loro.
Avanzava a una velocità non superiore a un chilometro e mezzo all’ora, sputacchiando vapore sibilante, e procedeva ineluttabile verso il loro cul-de-sac. Stava frenando, e le ruote facevano guizzare fuoco dalle scanalature, slittando e girando a rovescio, ma la locomotiva non sembrava rallentare affatto.
Lanciandosi l’uno all’altro urla di avvertimento che in quel frastuono era impossibile sentire, i tre compagni spinsero la porta del laboratorio, loro unico possibile rifugio. Riuscirono a smuoverla solo di pochi centimetri, quanto bastò perché Cal potesse intravvedere i due robot che tornavano a chiuderla. Lo schermo d’uno di essi mostrava un’immagine della faccia divertita di Karl; l’altro, la faccia del suo gemello. I muscoli metallici si mossero, e la porta si chiuse nonostante tutti gli sforzi dei tre umani.
Daisy si girò di scatto verso Brian e gridò, senza che nessuno la sentisse: «Be’, preparati a un altro esempio di giustizia poetica.»
I tre arretrarono contro la parete di fondo del corridoio, e guardarono il Vecchio Numero 666 che continuava ad avanzare verso di loro.
Capitolo Ventitreesimo
Orbitorio
«Presto prevalgon l’ombre della sera, la Luna narra la splendida favola; Ogni notte, alla Terra che l’ascolta ripete la storia della sua nascita.»