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ADDISON

Talvolta, a Suggs sembrava che l’uomo seduto di fronte a lui, al tabellone del Monopoli, non fosse Vetch, ma qualcun altro. La faccia barbuta del piccolo russo si trasformava lentamente in quella di altre persone dimenticate da molto tempo, qualcuno che l’agente Suggs aveva ucciso, o aveva desiderato uccidere… ma adesso Suggs voleva uccidere se stesso, e l’agente nemico glielo impediva.

Suggs aveva pensato per tutto il giorno a suicidarsi in segreto, a uccidersi proprio sotto gli occhi di Vetch aprendosi una vena dentro la tuta, oppure… ma era inutile, il russo interveniva con troppa rapidità. Nessuno dei due osava addormentarsi, per paura che l’altro ne approfittasse per uccidersi. Vetch non batteva neppure più le palpebre da parecchie ore.

L’insonnia sconvolgeva la mente di Suggs, e lui lo sapeva; e l’imponderabilità irritava il suo corpo. Tirava con forza, contro le cinghie, oppure premeva contro i cuscini soffici, quasi per provare a se stesso la propria esistenza. Non si sentiva più concreto di uno spettro.

Haroun Al Raschid sedette davanti a lui e cominciò subito a parlare, muovendo in modo espressivo le grasse mani ingioiellate, ma senza far rumore. Stavano viaggiando sul Reading, pensò Suggs, oppure sull’Orient-express.

«Sono disorientato,» spiegò a Haroun. Ma l’uomo grasso continuò a parlare, a parlare, senza rendersi conto che le sue parole non avevano suono, e ignaro della macchia purpurea che si allargava sul petto della camicia di seta chiara.

Vetch era finito con il suo segnalino su Imprevisto. Era stato l’ultimo tiro? Suggs non lo ricordava; non ricordava neppure quanti giorni erano passati da quando… da quando che cosa?

La faccia di Vetch continuava a trasformarsi in quella di Scotty, con i lineamenti straziati spruzzati di sangue e di frammenti d’osso.

«Mi hai proprio imbrogliato con quella macchina da scrivere truccata, vecchio mio,» mormorò. «Era un bel trucco, Suggsy.»

Se avesse parlato a Vetch, pensò Suggs, forse Scotty se ne sarebbe andato.

«Ti ho mai raccontato come ho ucciso il mio primo collega a Marrakech?»

«No, non mi pare. Racconta.»

«È stato molto buffo. Avevo una macchina da scrivere portatile truccata, con il carrello che era una specie di canna cava, e poteva sparare una pallottola da fucile. Per sparare bisognava premere il tasto del punto di domanda.»

Scotty parlò, e dalle labbra gli uscirono bollicine appiccicaticce di sangue. «La domanda è: perché?»

«Faceva il doppio gioco,» disse Suggs in tono stridulo. «Sapevo che era stato lui a farsi dare da Haroun l’altra metà della fotografia di Brioche. Stavano cercando di imbrogliarmi e di vendersi ai… a voi.»

«A noi? No,» disse Vetch. «Credevo che lo sapessi. L’altra metà della foto non è mai esistita. La vanità di Brioche, vedi. Lui non permetteva che nessuno avesse una foto di quella che chiamava ‘la sua metà peggiore’. Credevo che lo sapessi.»

«Lo sapevi, Suggsy, ma non volevi ricordartene,» ridacchiò Scotty. «Questa è la parte più buffa. Tu volevi solo un pretesto per ammazzare un paio di persone, no?»

«Il mio collega,» disse Suggs, fingendo di non averlo sentito, «vorrebbe scapolarsela ancora adesso. Ma non gli permetterò di cavarsela. Sono contento di averlo ammazzato, e se adesso fosse ancora vivo, lo ammazzerei di nuovo. Credo che sia stato lui a convincerla.»

«Ha convinto chi a fare che cosa?» chiese Vetch.

«Ha convinto mia moglie a chiedere il divorzio.»

Ridendo, Scotty si trasformò impercettibilmente in Vetch. Suggs si sentì prendere da un tremito incontrollabile alla gamba sinistra. Pensò all’impermeabile che aveva lasciato a Marrakech, e maledisse quella dimenticanza. In una spallina c’era cucita una capsula di cianuro.

Attraverso il vetro colorato del casco, lo sguardo folle di Vetch era piantato negli occhi di Suggs. Vetch non parve sentire neppure quando bussarono al portello.

Il portello si aprì ed entrò Barthemo Beele, con la visiera in mano. Dovette chinarsi perché il soffitto era basso; si portò sulla destra, fino alla poltroncina dove stava Vetch, e si sedette in lui. Con un sogghigno un po’ vergognoso, cominciò a schiacciare l’orlo della visiera.

«Almeno te non ti ho ammazzato,» ringhiò Suggs.

«Lo avresti fatto, se fossi rimasto ancora in circolazione, capo,» disse il giovane. Lasciò cadere il tesserino stampa che fluttuò verso il pavimento.

«È stato uno sbaglio, Beele,» disse Suggs con una risata cattiva. «Hai dimenticato che qui non c’è gravità. Gli oggetti non cadono.»

«Io ho dimenticato? In quanto a questo, lo sbaglio è stato tuo,» disse educatamente Beele. «Sono una creazione della tua immaginazione insonne oppure no?»

«Posso accertarmene.» Suggs allungò la mano per prendere la pistola, poi si rilassò e rise di nuovo. «No, ti piacerebbe, vero? Ammazzarei Vetch, ed è questo che tu, la mia mente inconscia, vuoi che io faccia.»

«Riprova a indovinare,» disse Beele, abbassando la voce. «Vetch è morto da ore, e tu lo sai.»

Il suo sorriso svanì nella smorfia di Vetch, e il tesserino stampa che aveva tra le dita diventò una carta arancione dell’Imprevisto. La faccia del russo era bluastra, e sulle labbra c’erano le vescicole causate dal veleno.

«Mi venga un accidente!» Suggs si batté la mano sul ginocchio. «Vetch, me l’hai fatta, e proprio davanti a me!»

Il cadavere lo guardò sprezzante. «E adesso cosa farai?» chiese. «Povero figlio di puttana.»

«Trasmetterò per radio la notizia della tua morte e poi… Non so bene.»

Tradusse in codice il suo messaggio e lo trasmise: «IVAN MORTO. SEGUONO NASTRI DI REGISTRAZIONE.»

Non era necessario aspettare la risposta. Sapeva cosa gli avrebbero ordinato di fare. Vai all’inferno. Vai direttamente all’inferno. Senza passare da Dio. Lui chiuse la tuta, agganciò una nuova bombola di ossigeno, e uscì dall’astronave. Dopo essere rimasto aggrappato per un istante, indeciso, si diede una spinta e si staccò. A quella distanza la Luna era più splendente, ma gli sembrava come sempre noiosa e indecifrabile. Si appisolò, chiedendosi se si stava allontanando o avvicinando alla Luna.

Si svegliò cercando di ricordare se aveva finito di fare il bilancio del suo conto in banca. Provvide a farlo, visualizzando le file ordinate delle spese in una griglia…

Si accorse che vedeva una torre, molto simile alla Torre Eiffel, la quale gli stava passando accanto lentamente. Era straordinariamente reale. Sulla piattaforma più alta riusciva persino a distinguere la minuscola figura raggelata di un uomo che si aggrappava con le mani alla ringhiera. Chissà per quale ragione, l’uomo aveva una visiera verde. Suggs si addormentò.

Si svegliò cercando di ricordare se aveva finito di fare il bilancio del suo conto in banca. Lo fece subito, decidendo saggiamente di non procrastinare. L’ossigeno stava per finire, perché pensare era diventato difficile.

Sguainò il coltello e tese il braccio. Era venuto il momento di fare un bel discorso sul suo spirito di sacrificio, ma la sua mente a corto d’ossigeno andava rallentando. C’era solo una frase che Suggs riusciva a ricordare:

«Prendi questo, lurido…!»

Le cartoline erano così banali che dovevano per forza essere cifrate, ma era evidente che non lo erano. Dopo aver staccato i francobolli per la collezione del nipotino, l’addetto all’ufficio cifra russo consegnò Buddy all’inceneritore.

Capitolo Ventiquattresimo

Il tempo e la sorte

«La mia mente sembra divenuta una specie di macchina che macina leggi generali estraendole da una immensa raccolta di fatti.»