Cal sentì una maniglia, sulla parete dietro di lui. La girò, e una porta di sicurezza si aprì, rivelando un nuovo tratto di corridoio. I tre compagni si precipitarono lì dentro, e la locomotiva li seguì ad andatura più dignitosa.
La prima porta che cercarono di aprire era già aperta. Mentre entravano, Daisy e Cal si scambiarono un sorriso di sollievo. Ma la fronte di Brian restò aggrottata mentre egli guardava le ruote ed i piedi dell’avanzante locomotiva.
Le ruote giravano all’incontrano, lanciando scintille. Dietro la locomotiva, una fila interminabile di vagoni scricchiolò e cigolò arrestandosi. Tra gli sbuffi del vapore, scese un macchinista con gli occhialoni, si tolse un guanto tutto unto, e aiutò una donna giovane e bella a scendere.
«Caspita!» il macchinista fischiò. «Poco è mancato che veniste trapassati sul posto. Sarebbe stata una vicissitudine infortuita.»
«Dottor Trivian!» gridò Cal, guardando la faccia occhialuta e impastata di sabbia. «È proprio lei?»
«Perdiana, ma è Calvin Potter!» Trivian gli afferrò la mano. «Questa è veramente un’occasione temeraria, ragazzo mio.»
«Ma cosa ci fa, qui, tanto lontano dal MIT?»
«Sto realizzando il sogno della mia vita: guidare una locomotiva a vapore. Cioè, in realtà a guidare è la piccola scatola grigia, ma io ho il diritto di dare suggerimenti… che non vengono mai ascoltati.
«Ma mi scordavo, o scordavo la mia passeggera, il che non è la stessa cosa, eh? Dottoressa Aurora Candlewood, posso presentarle un mio ex allievo, Calvin Potter?»
Lei era alta quasi come Cal, snella, con mani e piedi molto minuti, seni piccoli, e il collo esile e arcuato, da danzatrice. Eppure c’era una voluta goffaggine nei suoi movimenti, come se facesse apposta a nascondere la sua grazia naturale tenendo sempre il corpo in posizioni rigide e sgraziate. La sua mano era fredda.
Cal ricordò fulmineamente di essere spettinato, di avere gli abiti infangati e la faccia sudicia. Un improvviso, rabbioso prurito gli trafisse il mento, dove una barba neonata, dura e a chiazze, si aggrappava disperatamente come un lichene a una roccia sgretolata. Meccanicamente, presentò Aurora e Triviali ai suoi compagni.
Brian si chinò imbronciato e taciturno come un orologiaio sulla mano di Aurora.
«Gli estranei mi chiamano Miss le Duc,» disse Daisy al macchinista. «Gli amici mi chiamano Daisy. Ma per rimanere miei amici bisogna resistere alla tentazione di chiamarmi Daisy Duck, come Paperina.»
Aurora spiegò il suo interesse per il Progetto 32 e la ragione per cui era venuta al Laboratorio Wompler. Si mostrò sollevata quando scoprì che Cal sapeva qualcosa del funzionamento del Sistema Riproduttivo, dal livello della cellula individuale in su.
Brian annunciò che andava a «scoprire che ore erano», e se ne andò per una porta che portava in un secondo corridoio.
«Sì,» disse Trivian. «Lasceremo voi due scientifici alle vostre parlamentazioni. Miss le Duc, posso offrirle il braccio?» E si avviarono dietro al gangster.
Aurora e Cal evitarono di guardarsi in faccia mentre lei gli raccontava le sue avventure con Smilax al NORAD, e gli diceva che il dentista pazzo dominava il Sistema Riproduttivo.
«Smilax lo domina? Uhm. Chissà come fa.»
Cal raccontò la propria esperienza con il sistema, all’inizio, a Las Vegas e sulla via del ritorno. Dopo avere accennato all’apparente trasmissione delle caratteristiche acquisite, alle occasionali mutazioni abortite, e alle sue manifeste tendenze kenogenetiche, aggiunse che si era accorto di amarla.
«Capisco.» Aurora si accinse a considerare seriamente tutti gli aspetti del problema. Lui aveva qualche dato sul ritmo di riproduzione del Sistema? Sui limiti del suo apprendimento? E non era forse vero che molti di coloro che credevano di essere innamorati in realtà non lo erano?
Lui le disse ciò che sapeva del QUIDNAC, e aggiunse che sperava di poter ottenere la sua mano.
Aurora, arrossendo, discusse il condizionamento operante e reattivo, e spiegò che le modifiche di un tipo di comportamento potevano influenzare tutto il comportamento di un organismo, come nell’apprendimento del ragionamento astratto.
Poi espresse la speranza che il Sistema potesse venire costretto a «comportarsi bene»: 1) stabilendo un rapporto; 2) diventando nei suoi confronti genitori buoni ma severi; 3) incanalando le funzioni del Sistema verso fini utili all’umanità; 4) stabilendo modelli di comportamento e un metodo di premi e di punizioni per guidare il Sistema. Dei quattro, il punto 1 era il più difficile.
«Se almeno sapessimo come fa Smilax a controllare il Sistema,» disse Cal, «in qualche modo potremmo sostituirci a lui.»
«Il riconoscimento è un tipo di comportamento difficile da analizzare,» spiegò lei. «Poiché, in molte persone, è al limite della coscienza. Noi riconosciamo un amico anche vedendolo in una luce diversa, da angolazioni strane, in distanza, o con l’aggiunta di un paio di baffi.»
«Oppure anche se è invecchiato o ingrassato, sì. Ma il Sistema ha una mentalità letterale, ed è difficile che sappia fare tutto questo. Tendo a credere che Smilax adoperi una specie di distintivo o di parola d’ordine per identificarsi… qualcosa di unico.»
Aurora non ne era tanto sicura. «Non può trattarsi di un oggetto di cui altri potrebbero impadronirsi, o che si potrebbe perdere. Tendo a credere che si tratti di qualcosa di più positivo, come le impronte digitali o della retina, o la configurazione dell’orecchio.»
Poi aggiunse che avrebbe preso in considerazione la sua domanda di matrimonio, e che avrebbe preferito rispondere in seguito.
Cal stava per farle osservare che poteva anche non esserci un seguito quando, da lontano, Daisy urlò.
«Resti qui,» ordinò Cal, e corse via.
Ad un certo punto, Elwood Trivian aveva svoltato dalla parte sbagliata. Stava camminando a braccetto di Daisy; si erano lasciati per passare ai due lati di una colonna, e un attimo dopo lui s’erano trovato solo.
Per giunta, era solo all’intersezione di due corridoi deserti, che si estendevano per centinaia di metri. Non sapeva decidersi a scegliere. Poi, dopo un attimo di esitazione, si avviò verso sinistra.
All’improvviso, il pavimento gli mancò sotto i piedi. Brancolando e cercando di afferrarsi all’aria, Elwood precipitò nel buio, cercando di ricordare una preghiera della sua infanzia: «Benedetto…»
Piombò nell’acqua e andò a fondo, trattenendo il respiro. Ma non era acqua: era qualcosa di untuoso ed amaro. Risalì alla superficie e riprese fiato.
Che specie d’incubo era mai quello? Gli pareva di galleggiare su un lago di caffè freddo, verdastro, leggermente viscido. C’era un po’ di luce che proveniva da chissà dove, e c’era un soffitto, circa un metro e mezzo sopra la sua testa. E nulla, in tutte le direzioni, nulla tranne le onde brusche. Cominciò a nuotare nel caffè, sballonzolando come un mozzicone di sigaretta.
Brian puntò una pistola calibro 45 verso Cal e Daisy. I capelli radi, color polvere, erano scarmigliati, e nei suoi occhi c’era uno strano sguardo subdolo. Era acquattato al centro della stanza, accanto a un mobiletto metallico.
«State indietro, tutti e due. Non le son cose che vi riguardino.»
«Che cosa non ci riguarda?» chiese Cal. «Che cos’è successo, Professore?»
«Non è successo niente. Al contrario, tutto va benissimo! Il tempo… gli auspici…» Indicò il mobiletto metallico che, ad intervalli, vomitava una cinquantina di centimetri di carta. «E guardate l’Orologio della Vita!» Brian alzò la testa.
Cal vide che il soffitto della stanza rotonda era un grande quadrante d’orologio del diametro di circa quindici metri. La lancetta dei minuti si muoveva visibilmente per raggiungere quella delle ore sulle dodici, mentre la lancetta rossa dei secondi correva in silenzio. Daisy si rannicchiò contro la parete, sotto le XII, mentre Cal la seguiva lentamente, allontanandosi dalla porta che stava sotto le III.