«Le tolga di dosso quelle luride zampe!»
Senza attendere che il dottore obbedisse, Cal gli si avventò addosso, sferrandogli goffamente un pugno. L’astuto chirurgo si piegò, e il colpo gli sfiorò l’orecchio e centrò Aurora sulla guancia. Lei ripiegò la testa all’indietro, contro la parete metallica, e si afflosciò elegantemente sul pavimento.
All’improvviso, Cal si sentì afferrare alle spalle da una stretta di ferro. Un violento colpo alla nuca gli annebbiò la vista. Qualcosa lo colpì ai reni, allo stomaco, al naso. Sembrava che fossero quattro, sei, dodici pugni che lo percuotevano da tutte le direzioni. Reagì ciecamente, e non colpì nessuno. Fu quasi un sollievo quando qualcosa lo centrò con forza al pomo d’Adamo; e quando la stretta si allentò, piombò in una morbida oscurità.
Ma rimase privo di sensi solo per pochi secondi. Quando rinvenne, Smilax e altre due figure erano ritte accanto a lui. Lo sguardo annebbiato di Cal risalì dai piedi a rotelle e dalle gambe d’acciaio su su fino ai corpi corazzati e agli impassibili tubi catodici che stavano al posto delle facce.
«Ah, è sveglio, così il divertimento può cominciare. ‘Kurt’ e ‘Karl’ la faranno morire tra le torture… rozzamente, certo, perché non lo hanno mai fatto, ma con la tremenda lentezza di cui sono capaci solo le macchine.» Smilax aprì il coperchio scorrevole della scrivania d’angolo, e rivelò una console. Quando premette un interruttore, una sedia a piedestallo salì dal pavimento come un fungo. Smilax si sedette, con un sospiro.
«Vediamo,» disse, rimuginando davanti alla console. «Niente di serio fino a quando Aurora non rinverrà. Non voglio che si perda lo spettacolo migliore, eh? Ora, cominciamo con…»
Alzò una bambola collegata da un cavo alla console, e cominciò a massaggiarle il cuoio capelluto con sgarbato vigore. «Un massaggio olandese!»
I due robot rimisero in piedi Cal, e mentre uno lo teneva l’altro eseguì la medesima operazione. Cal cominciò a gridare.
«Ahah, benissimo. Adesso le daremo una scottatura indiana, e poi le torceremo il braccio fino a quando griderà basta.» Smilax diede una dimostrazione con la bambola, e i robot eseguirono, zelanti.
Per Cal, quelle torture erano dolorose quanto quelle che ricordava dalla sua infanzia. Cominciava a ideare un piano per sottrarsi ai torturatori meccanici; ma pensare divenne sempre più difficile, mentre i robot gli sbatacchiavano la testa, gli colpivano le orecchie, gli pestavano i piedi e gli tiravano i capelli. Quando non avevano altro da fare, i robot avevano ordine di continuare a pizzicarlo, e lo facevano con perfetta regolarità. Cal notò che non ricevevano entrambi gli ordini direttamente da Smilax. Solo quello con il distintivo ‘Karl’ girava verso il chirurgo il sensore che aveva sulla testa. Poi faceva accendere sulla propria faccia una serie di numeri, che «Kurt» leggeva, obbedendo con diligenza. Cal decise di interrompere la comunicazione tra loro.
Attese fino a quando Aurora gemette come se stesse riprendendo i sensi. A quel suono il dottore si girò, e Cal piantò il gomito, con tutte le sue forze, nel tubo catodico della faccia di «Karl». L’implosione fece indietreggiare il robot di qualche passo, ma non gli fece perdere l’equilibrio. Parve soffermarsi per un secondo, come per decidere qualcosa.
Poi «Karl» caricò… e cercò di torcere il braccio di «Kurt». «Kurt» lasciò andare Cal per allontanare il fratello. I due cominciarono ad azzuffarsi, bloccandosi in prese alternate, e girando lentamente per la stanza.
Quando vide ciò che era accaduto, Smilax afferrò uno strumento simile a un fucile e lo puntò contro la testa di Aurora. «Se si avvicina, l’ammazzo,» ringhiò.
«Cane rognoso e vigliacco!»
«Le farò pagare queste parole, Potter. Ogni cane ha la sua vittoria, e stia sicuro che stavolta l’avrò io.» Puntò il fucile contro Cal e sparò. Ne uscì un minuscolo razzo, che andò a sbattere sulla parete accanto a lui. Cal si buttò sul dottore e afferrò il fucile prima che potesse sparare ancora. Lottarono.
«Kurt! Karl! Aiuto!» gridò Smilax.
Ma gli sventurati robot non potevano aiutarlo. Si stavano ancora abbrancando furiosamente l’uno con l’altro, e in quel momento entrambi si disintegrarono, crollando in frammenti che continuarono ancora a combattere, come le chele recise dei granchi.
Cal e il dottore stringevano il fucile lanciarazzi, cercando goffamente di scambiarsi colpi. Erano combattenti tutt’altro che esperti, e l’età di Smilax aveva come contropartita la stanchezza e la debolezza di Cal. Incespicarono su un paio di braccia metalliche che lottavano sul pavimento. Cal perse l’equilibrio, lo riacquistò, ma ormai il dottore lo aveva inchiodato contro la parete, premendogli il fucile contro la gola come un bastone.
«Avrei dovuto ucciderla quando ne avevo la possibilità,» ringhiò Smilax, snudando minaccioso i denti.
Cal lo spinse indietro e sogghignò. «È lei che morirà come un cane, Toto!»
«Muoia!» scattò Smilax, accompagnando quella parola con un’altra spinta.
«Dopo di lei!» ribatté Cal, ricambiando lo spintone.
Continuarono a scambiarsi spinte e insulti, in un angolo della stanza. In un altro angolo, Aurora giaceva ancora svenuta. Tutto intorno erano sparsi pezzi di robot, compresa la testa mozza di «Kurt», la cui faccia mostrava solo file di asterischi ben spaziati.
«Giù!»
Con un ultimo spintone, Cal strappò l’arma al dottore, poi gliela puntò contro.
«E va bene!» urlò Smilax. «E va bene! Faccia pure! Mi spari!»
Cal buttò l’arma sul pavimento. «Non ne ho bisogno,» disse, «per metterla al suo posto.»
Ridendo, Smilax raccattò la gamba staccata di un robot e gliela avventò contro. Il colpo centrò Cal alla fronte, e lui cadde riverso su un mucchio di rottami. Solo vagamente scorse il dottore che toglieva una pistola da un cassetto della scrivania. Risuonò uno sparo. Cal crollò a terra. Alzò gli occhi giusto in tempo per vedere le falde del camice bianco di Smilax sparire oltre l’angolo della porta. Cal balzò in piedi e lo inseguì. Quando balzò nel corridoio, si trovò in un labirinto di passaggi privi di cartelli indicatori.
L’architettura di quella parte dell’edificio non sembrava una struttura fissa, bensì una specie di principio dinamico. Variando secondo una sua formula oscura, cambiava costantemente forma e dimensioni. Le pareti avanzavano, giravano, si ritiravano o crollavano, i soffitti si incurvavano o si gonfiavano, i pavimenti si inclinavano pericolosamente, oppure scendevano come ascensori. Una porta poteva condurre a una stanza alta cinquanta piani, o a una profonda solo due centimetri, oppure poteva essere finta.
Un paio di stanze identiche erano separate da una vetrata in modo che, guardando da un ufficio monotono all’altro. Cal si chiese per un secondo perché mai quello specchio bizzarro non rifletteva la sua immagine. Si precipitò fuori, e quando varcò la soglia, la stanza dietro di lui crollò come un castello di carte.
Quando vi metteva sopra il piede, una scala poteva diventare un pavimento, una rampa, o una scala mobile. In qualunque momento una stanza poteva compiere un quarto di giro su se stessa, o inclinarsi di fianco, poteva rimpicciolire o ingrandire assumendo una forma nuova. Le scale diventavano pavimenti, rampe, scale mobili; conducevano a ripostigli, o si ripiegavano su se stesse. Di tanto in tanto Cal intravvedeva la figura biancovestita del dottore: la distanza tra loro non diminuiva. Entrambi continuavano a salire.
Cal passò da un’ultima botola e uscì sul tetto, e lassù non c’era altro che il firmamento stellato. Il tetto sembrava un gigantesco parcheggio di circa cento acri, e qua e là brillava la fioca luce gialla d’una serie di lampade. Al posto delle automobili, a intervalli regolari, c’erano grandi cataste di legname e macchinari imballati, coperti da teloni. In distanza, Cal scorse dei carrelli elevatori a forcone che si muovevano avanti e indietro. Tutto il resto era immobile. Di Smilax non c’era traccia.