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«E quelle cosa sono? Sembrano antenne radio d’un’automobile,» disse Louie.

«Stia attento!» urlò Hita. «Sta cercando di agguantarlo!»

«No,» gli assicurò Karl. «Stia a vedere questo.»

Le due verghette passarono oltre all’orologio e salirono uno, due anelli della catena; poi si fermarono. Alcune scatolette si misero a «bere» alla presa di corrente diretta situata sul tavolo e formarono una catena da questa alla piramide. Vi fu un improvviso lampo sfrigolante di luce e l’orologio cadde: la piccola valigia aperta l’afferrò, ritirò immediatamente le corna protese e si richiuse.

«Ehi! Ridammelo!» Il matematico afferrò la scatoletta colpevole e la scosse. Cercò di aprirla a forza, poi la scosse di nuovo.

«Ahi!» All’improvviso la scatoletta piombò sferragliando sul tavolo, cominciò a correre in giro pazzamente e si perse tra le compagne. All’estremità dell’indice di Hita c’era una goccia di sangue. «Mi ha morso!» esclamò incredulo il giapponese.

«Sì!» annuì entusiasta Kurt. «Doveva aspettarselo che si sarebbe difesa. Lei la stava minacciando.»

«Sì, stava solo difendendo la sua proprietà,» aggiunse Karl.

«La sua proprietà!» Hita guardò prima uno dei gemelli, poi l’altro. Sorridevano compiaciuti, come genitori indulgenti. Senza aggiungere una parola, il matematico uscì dal laboratorio.

«Vediamo cosa fanno con questo,» dissero in coro i due fratelli. Spinsero l’oscilloscopio sul suo supporto a rotelle e lo appoggiarono al tavolo. Le creature grige lo notarono immediatamente. Adesso erano di dimensioni diverse: andavano da quelle che quasi non erano cresciute per niente, a quelle che avevano raggiunto il volume di cassette per attrezzi. Finora nessuna si era riprodotta.

Si avventarono intorno all’oscilloscopio e cominciarono ad ammucchiarsi contro il suo fianco. Dalla scatola più in alto uscì un minuscolo cacciavite per sondare l’apparecchio. Trovò una feritoia dell’aerazione, e cercò di forzare. Il cacciavite si ruppe. Vi fu uno scatto smorzato, e il moncherino rientrò.

«State a vedere,» ammonì Karl.

Dalla scatola uscì del fumo, poi un rumore di energico, rapido smartellare. Un attimo dopo apparve una grossa lama di cacciavite ancora rovente. Forzò l’involucro dell’oscilloscopio, ripiegando l’acciaio per aprire un foro grosso come un pugno. Da un’altra scatola uscì un paio di pinze, che entrò nell’oscilloscopio e cominciò a frugare e a rovistare in fretta. Di tanto in tanto si sentiva uno spicinio di vetro infranto. A intervalli regolari, la pinza usciva portando il bottino: una valvola rotta, un pezzo di filo lungo cinque centimetri, mezza resistenza o una scheggia di vetro. La scatola ingoiava tutto, avidamente.

«Ehi!» esclamò Louie, accorgendosi finalmente di quello che stava accadendo. «Se lo vede mio padre!»

Era troppo tardi. In quel preciso momento, Grandison si affacciò sulla soglia. «Se vedo cosa?» Vide la scatola estrarre una manciata di transistor e ingozzarli come se fossero acini d’uva succulenta. «Cosa diavolo succede qui dentro?» Lanciando un’occhiataccia a Cal, gridò: «Neanche due settimane fa le avevo detto di aver cura delle apparecchiature! Cosa diavolo intende fare, a distruggere in questo modo la mia proprietà?»

Cal si mosse per spegnere il sistema ma Kurt lo trattenne per un braccio. «No,» disse. «Commette degli errori, ma imparerà. La settimana prossima ci sarà un’ispezione del generale Grawk dell’Aeronautica. Lasciamolo continuare fino ad allora. Gli daremo un angolo di laboratorio tutto suo, perché possa crescere.» E aggiunse, rivolgendosi al presidente della società: «Non si preoccupi, signore. Questo sistema renderà miliardi alla società per ogni dollaro che costa.»

«Beh, è una consolazione.» L’espressione di Grandison cambiò. «Ma ho avuto una brutta notizia. Hita è morto adesso all’infermeria.»

Cal sbarrò gli occhi. «Cos’ha detto?»

«Hita. L’addetto alle statistiche. È morto per un morso di serpente.»

Con un piccolo scoppio di tuono, il tubo catodico si spaccò. Le scatole continuarono a pascolare tranquillamente.

«Povera ramificazione,» mormorò Cal, con un brivido. «Poveri piccoli anapesti.»

Capitolo Quarto

L’ispettore generale

«‘Es ist ein eigentümlicher Apparat,’ sagte der Offizier.»

KAFKA

Alle tre del pomeriggio del giorno dell’ispezione, quasi tutto il personale dei Laboratori di Ricerca Wompler era radunato sul prato; e tutti indossavano candidi camici da laboratorio. Stavano in file serrate, in un silenzio così perfetto che il suono più forte era il fievole sussurro degli innaffiatoi automatici del prato. In prima fila, con i volti levati verso il sole, stavano Grandison e Louie, che indossavano camici da laboratorio confezionati apposta per l’occasione da Mrs. Lumsey.

Alle tre in punto, un elicottero argenteo scese dal sole. Il tremendo spostamento d’aria fece garrire sull’asta la bandiera americana e i due orifiamma dei premi di cui era stata insignita a suo tempo la società, agitò lievemente la frangia argentata che orlava i camici pieghettati dei due Wompler. L’elicottero si posò sul lussureggiante tappeto verde. Uno sportello argenteo si aprì.

Il generale Grawk uscì, tra un nugolo di donne bellissime. In realtà erano solo quattro donne dai capelli rossi, tutte molto simili, e cioè alte, belle, e dotate di curve che neanche la sartoria dell’Aeronautica era riuscita a cammuffare da spigoli. Erano quattro sane, affascinanti ufficialesse delle Ausiliarie, indaffarate a sistemargli i nastrini, a raddrizzargli la cravatta, a consegnargli il berretto e a riaccendergli il nero mozzicone di sigaro… ad avvolgere, insomma, in una nube di incantevole femminilità…

…l’uomo più brutto che si potesse trovare in un raggio di mille miglia.

Immaginate una faccia rossa e furiosa come quella di un bambino appena nato. Immaginate capelli neri, radi, simili a penne d’oca spezzate, sistemati di qua e di là intorno a una calvizie del colore del deretano d’un babbuino. Immaginate il naso di un pechinese, ma il labbro superiore di un Uomo di Pechino, o sinantropo che dir si voglia, e immaginate ancora il primo perpetuamente arricciato in un’espressione di disgusto ed il secondo contratto in un ringhio invariabile sui denti gialli e storti. Aggiungete occhi sporgenti e sbiaditi, una mascella penzolante che aveva bisogno d’una rasatura dal giorno in cui era stata creata, e il collo di un tricheco particolarmente obeso, completo di tre pieghe di grasso sulla nuca. Ci siete? Adesso aggiungete ciuffi neri per sopracciglia e bozzi asimmetrici a volontà, piazzate il tutto sopra una figura tozza in uniforme, e coronatelo (come fece Grawk in quel momento) con un berretto altissimo carico di fronde d’argento.

Mettendosi il berretto in testa, Grawk accrebbe la propria statura fino ad arrivare all’incirca a un metro e cinquantadue. Sputò fuori il sigaro e si guardò intorno, a braccia conserte.

«Dunque questo,» disse, «sarebbe il grande Laboratorio di Ricerche Wompler, eh?»

«Infatti. Io sono Grandison Wompler e questo è mio figlio Louie. Louie, saluta il generale Grawk.»

«Ciao!» gridò Louie.

Il generale squadrò i Wompler, dalla testa ai piedi, senza ignorare un solo particolare, tranne le loro mani protese. «Carini i camici che avete qui,» disse, puntando un dito verso le frange d’argento. «Chi è il vostro sarto?» Poi, rivolgendosi a una delle ausiliarie: «Prendine nota, Mag. In primo luogo, hanno un servizio di sicurezza inefficiente. Nessuno ha chiesto di vedere i miei documenti. Potevo essere una spia russa, santo cielo. In secondo luogo, credo che i due papaveri più alti, qui, siano froci. Padre e figlio, cribbio! E tutti vestiti con gli abiti di Mammà, immagino, eh?»