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L’ampio sorriso di Louie vacillò e scomparve. «Ehi, aspetti un momento,» disse. «La mamma di chi? Aspetti un momento.» Le sue mani enormi si strinsero a pugno.

«Ci tiene tanto che il suo vecchio perda un paio di milioni di contratti governativi?» strillò il generale. «Ci tiene tanto a non lavorare più per il governo? Bene, e allora mi metta una zampa addosso, piccolo. Avanti, mi colpisca!»

Grandison riuscì a impedire che suo figlio accontentasse il generale. Grawk sogghignò lievemente, stiracchiò le pieghe di grasso del collo e si guardò indietro. «Dobbiamo proprio stare qui in piedi tutto il giorno?»

Tutti quanti si accodarono a Kurt e Karl, che guidarono il generale alla porta esterna del laboratorio. Tra la rinnovata indignazione di Grawk, il Marine di guardia insistette per vedere i suoi documenti d’identità.

«Magnifico,» disse lui, mostrandoli. «Veramente magnifico. Questo tipo non vede che indosso l’uniforme di generale dell’Aeronautica Militare degli Stati Uniti. Deve accertarsene. Ma bene. Oh, vedo che qui le cose vanno proprio bene.»

Entrarono.

«Chi di voi è Smilax, il capo del progetto? Lei?» chiese il generale a Karl, che scosse il capo.

«La prega di scusarlo,» disse Karl. «Non può incontrarsi personalmente con lei.»

«Come sarebbe, ‘non può’? Dov’è?»

«Nel suo ufficio.» I gemelli indicarono la porta.

Un sorriso rabbioso fece fremere il labbro scimmiesco. «Capisco. Io non sono abbastanza importante perché esca dalla tua tana per incontrarmi, eh? Un semplice generale con quattro stelle è roba da niente, eh? Immagino che lui parli solo con i Capi di Stato Maggiore o roba del genere.»

Poiché i due gemelli non gli risposero, il generale marciò verso la porta dell’ufficio e provò ad aprirla. Era chiusa a chiave. Alzando delle nocche che parevano fatte per camminarci sopra, bussò seccamente sul cartello SETTORE ASSOLUTAMENTE VIETATO.

Si aprì la porta accanto e un Marine di guardia, armato di mitra, ne uscì fuori.

«Purtroppo lei non può entrare, generale,» disse. «VIETATO L’INGRESSO AL PERSONALE NON AUTORIZZATO. QUESTO VALE PER VOI,» citò dalla scritta perfettamente leggibile.

«Cosa diavolo vorresti dire? Io sono autorizzato ad accedere ai segreti. Sono qui per ispezionare la fabbrica. Se non sono autorizzato io, chi lo è? Cosa cavolo sta succedendo qui, comunque? Smilax, venga fuori!» Scosse la maniglia e pestò sull’uscio fino a quando il Marine gli puntò contro il mitra accennandogli di levarsi di mezzo.

«Sta’ a sentire,» gli disse Grawk, in tono un po’ più conciliante. «Io ho fatto mille chilometri con quell’elicottero arroventato per ispezionare il progetto di Smilax. E tu vorresti dirmi che quel pazzoide non può neanche uscire dal suo ufficio per parlare con me?»

«Purtroppo no, generale. Il dottor Smilax va e viene come gli pare e piace,» rispose conciso il Marine. «Se vuol mettersi in contatto con lui, sarà meglio che inoltri il suo messaggio ai Capi di Stato Maggiore.»

«…» disse il generale. Cioè, aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Sulla faccia cominciarono a serpeggiargli venuzze purpuree, e gli occhi sbiaditi schizzarono dalle orbite.

Poi girò sui tacchi, lanciando nel contempo una breve risata isterica. «Sta bene,» disse. «Vediamo questo cosiddetto progetto, e facciamola finita.»

In un angolo del laboratorio era stato sgomberato uno spazio considerevole. Lì c’era un oggetto ingombrante, più o meno delle dimensioni di un’automobile, coperto da un telone. I fratelli Mackintosh andarono a togliere il telone, ripiegandolo in fretta, con mosse esperte, e riducendolo alle dimensioni di un cappello.

«Cos’è ’sta roba?» chiese il generale, indicando con la mano il mucchio di scatole grige. Stavano su tre tavoli da laboratorio, fremendo, girandosi lievemente sulle rotelle nascoste perché avevano sentito il movimento attorno a loro.

«È una macchina autoriproducentesi,» annunciarono ì gemelli. «Un Sistema Riproduttivo.»

«Ah sì? Brutto, però, eh?»

Durante l’ultima settimana, spiegarono i due, le scatole avevano divorato più di una tonnellata di rottami di metallo, oltre a una dozzina di oscilloscopi con relativi generatori di segnale, trenta e passa analizzatori, calcolatori da tavolo meccanici ed elettronici, un paio di forbici, un numero incalcolabile di tappi da bottiglia, fermagli, cucchiaini da caffè e chiodi a U (dato che il personale del laboratorio e degli uffici si divertiva a dar da mangiare ai nuovi beniamini), dozzine di batterie per walky-talky e un piccolo generatore a benzina.

Le cellule si erano moltiplicate; avevano più che raddoppiato il numero originale, ed erano cresciute variamente, dalla grandezza di scatole da scarpe e valigette ventiquattr’ore fino alle proporzioni di bauli. Adesso si riproducevano costantemente ma lentamente, in modi diversi. Un baule emetteva, ogni cinque o dieci minuti, un paio di scatolette 7 x 12. Un’altra scatola, straordinariamente lunga, sembrava si stesse segando lentamente a metà.

Il generale Grawk restò imperturbabile. «E cosa fa?» ringhiò.

«Neanch’io ne so molto di queste faccende,» ammise candido Grandison. «Lascio tutte le questioni tecnologiche importanti ai miei ragazzi, qui, Kurt, Karl e Cal. Loro sanno tutto sugli Endimioni e le dottrine revansciste, e roba del genere.»

Con rabbiosa soddisfazione, il generale si rivolse a una delle ausiliarie: «Amy, prendi un appunto. Credo che questo sia un comunista,» sputò disgustato, «oltre che frocio.»

«Lasciamelo picchiare, Papà!» abbaiò Louie. «Lascia che provi l’Origami su di lui.»

Kurt e Karl continuarono a spiegare il sistema, come se non fossero stati interrotti.

«È ergotropo,» disse Karl. «Cioè, può cercare e usare quasi tutti i tipi di energia.» Poi fece un gesto al fratello, come un attore d’operetta a un altro.

«È metallotropo,» aggiunse Kurt. «Alcune cellule sono orientate più verso il metallo, altre verso l’energia. Possiamo dare una dimostrazione?»

Ognuno dei due gemelli sollevò delicatamente una scatola; erano grosse come valigette ventiquattr’ore. «Questa è una cellula che cerca energia,» spiegò Karl. «E quella cerca metallo.»

Le ruote delle due macchine ronzarono, quando i gemelli le posarono sul pavimento. Una girò su se stessa e sfrecciò verso la presa della corrente. L’altra cominciò a correre per la stanza, assaggiando le gambe dei mobili metallici, soffermandosi a mordicchiare lo spigolo di uno schedario. Cal la cacciò via e quella corse a nascondersi dietro a un tavolo da laboratorio, fuori dalla sua portata. Tra il tavolo e la parete, vide la scatola che si avviava verso l’angolo in fondo, in direzione della vasca delle ostriche.

«Carina, per la verità,» disse il generale.

La vasca delle ostriche, con una gamba tranciata, crollò. Quando l’acqua si sparse sul pavimento, la grossa scatola corse via, precedendola e sfrecciando verso la porta. Tra le chele da granchio reggeva un cestino metallico per la carta straccia, un trofeo conquistato faticosamente.

«Fermatela!» urlò Cal. Il generale cominciò a ridere.

«Altolà!» intimò il Marine di guardia. Sparò un colpo d’avvertimento ma la valigetta ventiquattr’ore continuò ad avanzare. Il Marine abbassò il mitra e sparò direttamente alla scatola. I proiettili crepitarono sul cestino della carta straccia. Il Marine scaricò l’arma, mentre la scatola gli guizzava tra gli stivali lucidi e si precipitava fuori dalla porta.

«Tutto quel che doveva fare,» disse Karl, «era raccoglierla.»

Il generale si appoggiò al tavolo, piegato in due dal gran ridere. I gemelli e Cal stavano cercando di intrappolare l’altra scatola. Eccitata dai lampi degli spari, quella correva in cerchio tutto intorno alla stanza.

«Mi pigli un accidente,» continuava a ripetere il generale. «È la cosa più divertente che abbia visto dopo la guerra.» Il suo peso faceva inclinare il tavolo, e le scatole si precipitarono verso di lui, facendolo inclinare ancora di più.