Bernard chiuse gli occhi cercando di dominare il senso di stordimento, e aspettò il momento dell’atterraggio.
Ma questo avvenne solo più tardi. Bernard si accorse di essersi appisolato, certo a causa delle pillole anti-decelerazione che Nakamura gli aveva propinato con l’ultimo pasto. Si trovò sveglio di soprassalto, quasi per un presentimento dell’arrivo, e infatti, qualche istante dopo, ci fu un lieve scossone. Nient’altro.
L’atterraggio era stato perfetto.
La voce di Laurance arrivò dall’altoparlante: «L’atterraggio è avvenuto senza incidenti. Il punto di atterraggio è a diciotto, venti chilometri a est della colonia aliena. Il sole dovrebbe sorgere tra un’ora circa. Lasceremo l’astronave non appena terminata l’operazione di decontaminazione.»
La decontaminazione richiese solo pochi minuti. Poi, il portello stagno si aprì e l’aria di un nuovo mondo entrò a fiotti nell’astronave.
Bernard si fermò sulla soglia del portello, inspirando quell’aria a pieni polmoni. Era molto simile a quella della Terra, conteneva però una maggior percentuale di ossigeno, quanto bastava per renderla gradevole, tonificante e senza pericolo alcuno per la salute. L’ossigeno in più, produceva un effetto lievemente euforizzante. Bernard, nell’aspirare quell’aria a pieni polmoni, ritrovò la sicurezza che l’aveva abbandonato durante le ore tetre precedenti l’atterraggio.
«Andiamo, dottor Bernard» lo sollecitò Peterszoon dal basso. «Non possiamo aspettare fino a sera per metterci in cammino.»
«Scusate» disse Bernard. Arrossì e si affrettò giù per la passerella. I cinque uomini dell’equipaggio erano già sbarcati. Stone, Dominici e Havig scesero dopo di lui.
Una fresca brezza mattutina, frizzante, soffiava attraverso il prato sul quale era atterrata l’astronave. Il cielo era ancora grigio, e le ultime stelle si andavano spegnendo. Le tinte rosee dell’aurora cominciavano a striare l’orizzonte. La temperatura era mite, e prometteva una mattinata tiepida. L’aria aveva la limpidezza trasparente che si trova solo nelle terre vergini, dove nessun impianto inquina l’atmosfera con i suoi miasmi.
Così doveva essere la Terra nelle mattinate del nono secolo, pensò Bernard. C’erano però alcune differenze, sottili e tuttavia essenziali. L’erba sotto i loro piedi, per esempio. I fili verdazzurri germogliavano tripli dallo stelo, attorcigliandosi l’uno intorno all’altro prima di allungarsi verso l’alto. Nessun’erba terrestre era mai cresciuta seguendo una struttura così complessa.
Anche gli alberi erano diversi. C’erano dei sempreverdi alti circa sessanta metri, e con tronchi che alla base avevano una circonferenza di tre o quattro metri. Dal più vicino pendevano dei coni lunghi novanta centimetri; la corteccia era di un giallo chiaro, con striature nere orizzontali; le foglie, grosse lame verdi e lucenti, erano larghe cinque centimetri e lunghe trenta. Nell’erba cantavano i «grilli», ma come Bernard ne scorse uno, si accorse che si trattava di una creatura grottesca, lunga otto o dieci centimetri, verde, con occhi a palla dorati e un becco dall’aria feroce. Grandi funghi ovali, con cappelle piatte del diametro di circa mezzo metro, spuntavano qua e là: macchie di un rosso purpureo nel verde quasi azzurro dell’erba. Dominici si chinò per toccarne uno, e il fungo si accartocciò appena il suo dito ne sfiorò l’orlo.
Per un lungo istante, nessuno parlò. Bernard provava una sorta di stupore riverente, e sapeva che anche gli altri condividevano la sua emozione: la meravigliosa sensazione di mettere piede su un pianeta che l’umanità e la civiltà non avevano ancora alterato. Questo era il pianeta allo stato primitivo, com’era uscito dalla mano del Creatore, e perfino uno scettico come Bernard si commoveva di fronte a quella scoperta.
Poi quello stupore svanì.
Questo mondo non è più allo stato vergine, pensò Bernard. L’umanità non ha ancora fondato qui una sua colonia, ma altri esseri l’hanno fatto.
Questo pensiero ridimensionò drasticamente il fascino di quella bellezza primordiale, ricordandogli lo scopo che li aveva condotti lassù. L’espressione di Bernard si fece cupa. Come poteva, un mondo così ridente, rappresentare una minaccia per la Terra? Be’, quel mondo in sé non rappresentava nessuna minaccia. Stava solo a simboleggiare la possibilità di uno scontro tra due culture diverse.
Laurance ruppe il filo di quei pensieri annunciando con calma: «Procediamo a piedi verso il villaggio degli alieni. Ci sono due scivoli a bordo, ma non ho intenzione di usarli.»
«È proprio necessario andare a piedi?» chiese Bernard.
«Penso di sì» disse Laurance, riuscendo solo in parte a nascondere la sua irritazione per l’eccessivo amore di Bernard per le comodità. «Arrivare rombando sui nostri veicoli, potrebbe sembrare un po’ troppo aggressivo. In questo caso gli altri, gli alieni, potrebbero anche decidere di non concederci nemmeno la possibilità di avvertirli che abbiamo intenzioni amichevoli.»
«Nel dubbio, non sarebbe meglio che anche noi fossimo armati?» chiese Dominici. «Avete armi anche per noi quattro?»
«Armi?» ripeté Laurence sorpreso. «Ma veramente pensate di presentarvi armati?»
«Be’…» s’inceppò il biologo, sconcertato dal tono di Laurance. «Certo che pensavo di andarci armato, tanto per precauzione. Questi esseri sconosciuti… voi stesso avete osservato che potrebbero accogliere male il nostro arrivo.»
Laurance batté con aria truce sulla pistola che portava al fianco. «Porto io l’unica arma di cui avremo bisogno.»
«Ma…»
«Se gli stranieri reagiranno ostilmente alla nostra presenza» disse Laurance in tono deciso, «niente di più facile che tutti voi diventiate dei martiri della causa della diplomazia terrestre. Spero che ognuno di voi si senta rassegnato fin d’ora a questa eventualità. Quanto a me, preferirei che fossimo tutti ridotti in cenere dalle armi di quegli sconosciuti piuttosto di sapere che uno dei nostri negoziatori s’è messo a sparare all’impazzata su quegli esseri solo perché il suo sistema nervoso ha perso l’equilibrio. Non è prudente addentrarsi per dieci miglia in un territorio completamente sconosciuto senza almeno un’arma, e infatti io sono armato. Ma il diavolo mi porti se vi lascerò entrare nella colonia aliena con l’aria di una pattuglia d’invasori.» Si guardò attorno, e i suoi occhi si soffermarono sui quattro parlamentari. «Ci siamo capiti bene?» chiese.
Nessuno rispose. A disagio, Bernard si grattò una guancia e finse di essersi perfettamente adattato all’idea dell’eventuale martirio. Ma non lo era per niente.
«Nessuna obiezione?» chiese Laurance, più calmo. «Bene. Tutti d’accordo, allora. L’arma la porto io. E io solo sarò responsabile per le conseguenze che potrebbero derivarne. Credetemi, non è della mia sopravvivenza, che mi preoccupo, quanto dell’impulsività di qualcun altro. Altre domande?» Poiché non ce ne furono, Laurance si strinse nelle spalle. «Benissimo. Possiamo metterci in cammino subito.»
Si voltò, controllò la posizione con una piccola bussola inserita, con parecchi altri indicatori, nella manica del giaccone di cuoio, e fece cenno verso ovest avviandosi. Nakamura e Peterszoon gli andarono dietro senza pronunciare verbo, Clive ed Hernandez si mossero subito dopo.
Nessuno di loro si prese la briga di voltarsi per veder se i quattro parlamentari li seguivano.
Con una scrollata di spalle, Bernard si affrettò a mettersi in coda dietro i cinque piloti, e Dominici lo affiancò. Dietro veniva Stone, e Havig stava alla retroguardia.
«Non ci trattano certo come se fossimo molto importanti» si lamentò Bernard rivolto a Dominici. «Pare che abbiano dimenticato la ragione per cui siamo qui.»
«Non l’hanno dimenticato» brontolò Dominici. «Solo che nutrono un certo disprezzo verso i poveri posapiano come noi. Non ci possono sopportare. «Quelli del transmat» ci chiamano, e dovreste sentire con che tono di scherno. Come se ci fosse qualcosa di moralmente sbagliato nello scegliere la via più breve possibile tra due punti.»