«C’è, ma solo in quanto indebolisce la capacità fisica di sopportazione» spiega Havig dalla retroguardia. «Tutto ciò che ci rende meno adatti a sopportare il fardello dell’esistenza terrena è moralmente sbagliato.»
«Prendere il transmat effettivamente finisce per consolidare le cattive abitudini» ammise Bernard, sorpreso egli stesso di trovarsi una volta tanto d’accordo con Havig. «Si finisce col non sapere più valutare l’Universo. Da quando il transmat è stato inventato, abbiamo completamente dimenticato il significato della parola distanza. Per noi, ormai, il tempo non è più in funzione della distanza. Per gli astronauti sì. E siccome noi non siamo in grado di dominare la nostra impazienza, agli occhi degli astronauti siano soltanto dei deboli.»
«E tutti noi siamo deboli agli occhi di Dio» continuò Havig. «Ma alcuni di noi sono più preparati ad andare da Lui di quanto lo siano gli altri.»
«State zitto» disse Dominici senza acredine. «Quando meno ce lo aspettiamo, potremmo ritrovarci tutti da Lui. Non fatemelo ricordare.»
«Avete paura di morire?» chiese Havig.
«Be’, mi scoccia il pensiero di non aver potuto compiere tutto ciò che avrei voluto» disse Dominici. «Cambiamo discorso, per favore.»
«E non tiriamolo più in ballo» concluse secco Bernard.
«Attento» lo avvertì Stone.
Proseguirono tutti in silenzio. Il sentiero era lievemente in salita, e nonostante la percentuale extra di ossigeno contenuta nell’aria, ben presto Bernard si ritrovò a sudare e a sbuffare. S’era fatto un dovere di mantenersi fisicamente in forma frequentando regolarmente una palestra di Giacarta, ma adesso stava velocemente scoprendo la differenza tra il fare degli esercizi in palestra in uno stato d’animo tranquillo, e l’arrampicarsi su per un sentiero ripido, in un pianeta sconosciuto.
Suo malgrado, le tossine dell’angoscia gli legavano i muscoli, e il veleno della paura si aggiungeva alla fatica fisica, rallentandogli i movimenti. Rimase un poco indietro, lasciando che Dominici continuasse da solo. A un tratto inciampò, e Havig fu pronto ad afferrarlo per un gomito e a sostenerlo. Nel voltarsi, Bernard colse un sorrisetto sulle labbra del Neopuritano, e lo sentì mormorare: «Fratello, tutti barcolliamo lungo il sentiero.»
Bernard era troppo stanco per ribattere. Havig sembrava dotato di un estro infernale per trasformare anche l’incidente più insignificante in un pretesto per fare predicozzi. Però pensò Bernard, e se Havig volesse solo scherzare, e facesse continuamente la parodia di se stesso, così, solo perché ha un senso dell’umorismo un po’ goffo? Macché si disse poi, Havig non sa nemmeno dove stia di casa l’umorismo. Quando dice una cosa, intende proprio e soltanto dire quella cosa.
Bernard continuò ad avanzare. Laurance e i suoi uomini, che marciavano alla testa del gruppo, sembravano freschi come rose. Avanzavano come se avessero gli stivali delle sette leghe, aprendosi il passo fra il sottobosco a volte impenetrabile che bloccava il passaggio, o girando abilmente attorno a un albero caduto, il cui tronco alto come un uomo, già coperto di funghi, creava una vera barriera, o fermandosi a calcolare la profondità di un torrente scuro e impetuoso prima di guadarlo, scendendo nell’acqua che a volte arrivava a lambire l’orlo dei loro stivaloni alti fino alla coscia.
Bernard cominciava a sentire un po’ meno il fascino di tanta bellezza inesplorata. Anche la bellezza può impallidire, specialmente quando diventa scomoda e faticosa. La gloria abbacinante dei fiori purpurei lasciava Bernard del tutto indifferente. La grazia snella degli animaletti candidi simili a gatti che saltellavano attraverso il sentiero, non gli comunicava nessuna allegria. Le grida rauche degli uccelli sugli alberi torreggiami non lo divertivano più; anzi, gli sembravano estremamente sgradevoli.
Non si era mai reso conto in modo così concreto che il termine astratto «venti chilometri» corrispondeva a un numero interminabile di passi faticosi. Aveva i piedi indolenziti, le caviglie e i polpacci in fiamme, le gambe che non lo reggevano. E abbiamo appena cominciato a camminare pensò disperato. Mezz’oretta appena di marcia, e io mi sento già uno straccio.
«Siamo ancora molto lontani?» chiese a Dominici.
Il solido biologo lo guardò con aria di benevolo scherno. «Volete scherzare? Avremo fatto sì e no quattro o cinque chilometri al massimo. Coraggio, Bernard. Ce n’è di strada da fare!»
Bernard assentì. Forse il calcolo di Dominici era anche troppo ottimista. E lui già non ne poteva più.
Ma non c’era niente da fare, bisognava andare avanti. Sportivamente. Il giorno ormai era sorto, il cielo era vivido, e il sole pareva nascondersi dietro gli alberi più lontani, pronto a saltar fuori da un momento all’altro. L’aria si era fatta molto più calda, la temperatura saliva. Bernard si era slacciato la giacca. Di tanto in tanto beveva dalla sua fiasca, augurandosi che l’acqua gli bastasse anche per il ritorno. L’ultima volta che erano stati lassù, Laurance e i suoi uomini avevano esaminato l’acqua e avevano scoperto che si trattava senza dubbio della stessa formula H2O, e che presumibilmente era anche potabile. Non c’era stato tempo però per analisi elaborate allo scopo di controllare la quantità e la qualità di vita micro-organica. Ma anche se era improbabile che quel liquido potesse avere effetti dannosi sull’organismo di un terrestre, Bernard non era disposto a fare da cavia.
Dopo un’ora si riposarono, appoggiandosi ai tronchi massicci degli alberi.
«Stanchi?» chiese Laurance.
Stone annuì, Bernard grugnì qualche parola d’assenso. Negli occhi di Laurance apparve una luce maliziosa. «Anch’io» confessò l’ufficiale. «Ma dobbiamo proseguire ugualmente.»
Il sole sorse qualche minuto dopo che la marcia era ripresa. Apparve glorioso nel cielo, accendendolo di una luce radiosa. La temperatura continuò a salire. Ormai, si era sui ventidue gradi. Bernard pensava avvilito che verso mezzogiorno sarebbe arrivata a trentadue o anche a trentacinque. Si sovvenne di un antichissimo proverbio: «Solo i cani randagi e gli inglesi escono sotto il sole di mezzogiorno». Sorrise. Forse solo un paio di volte all’anno si ricordava d’essere inglese, sebbene fosse nato a Manchester e abitasse a Londra. Anche quello era un effetto dell’era del transmat. Nessuno si sentiva più effettivamente legato a una nazione, a un continente, o addirittura a un mondo. Solo in rari momenti d’improvvisa introspezione capitava a Bernard di ricordarsi d’essere inglese, e perciò erede, in senso vago e misterioso, di tradizioni e di uomini come Shakespeare, Riccardo Cuor di Leone, William Churchill, nonché d’altri fantasmi del passato.
Solo i cani randagi e gli inglesi escono sotto il sole di mezzogiorno. Il dottor Martin Bernard si asciugò il sudore dalla fronte, e stringendo i denti costrinse le sue povere gambe a continuare a trasportarlo.
6
Dopo un po’ lo sforzo divenne puramente meccanico. Bernard smise di autocommiserarsi e concentrò tutte le energie fisiche e mentali nella necessità di mettere una gamba davanti all’altra. E i metri divennero chilometri, la distanza tra l’astronave e la colonia aliena si accorciò. Non c’è niente di meglio di una marcia di venti chilometri, a una temperatura di venticinque gradi o trenta gradi, per insegnare a un viaggiatore transmat che cosa significa il concetto di distanza pensò Bernard. E lui lo stava imparando: distanza significava sudore che cola lungo le guance e gocciola dalla fronte negli occhi, significava la vescica che a poco a poco si trasformava in una piaga su un tallone; significava quel senso di gonfiore e di crampo nei polpacci, l’indolenzimento atroce di tutti gli ossicini del piede, il dolore fisso nei muscoli anteriori della coscia. E quella era una marcia di soli venti chilometri.