Выбрать главу

«Hanno tanta paura di noi quanta noi di loro» Bernard sentì mormorare alle sue spalle da Dominici. «Dobbiamo apparire come visioni da incubo che scendono giù dalla collina.»

Solo trenta metri, ormai, separavano i due «azzurri» da Bernard e Laurance. Gli altri, i verdi, avevano smesso completamente di lavorare. Abbandonati i loro utensili, si erano ammassati in un gruppo compatto dietro i due azzurri, e fissavano i Terrestri con espressione che poteva sembrare di angosciata perplessità.

Il sole ardeva spietato. Bernard sentiva la camicia appiccicata alla pelle. Mormorò a fior di labbra a Laurance: «Dovremmo fare un gesto amichevole, altrimenti potrebbero spaventarsi, e magari distruggerci per non correre rischi.»

«Giusto» bisbigliò Laurance, e a voce più alta ordinò, senza voltare la testa: «Attenzione, voialtri. Portate lentamente le mani verso l’alto e tenetele tese con le palme rivolte all’insù. Adagio! Questo potrebbe convincerli che siamo qui con intenzioni pacifiche.»

Col cuore che gli martellava, Bernard alzò lentamente le braccia e voltò le palme all’insù. Ormai, solo quattro o cinque metri separavano i due gruppi estranei. Gli azzurri avevano smesso di avanzare. Bernard e Laurance, invece continuavano a venire avanti attraverso la radura, sotto il sole cocente.

Bernard osservò attentamente i due azzurri. Parevano su per giù della statura media di un uomo, forse un po’ più alti. Indossavano solo un indumento color giallo sporco, rozzamente intessuto, avvolto attorno alla vita. La pelle azzurro cupo era lucida di sudore, dal che si capiva che quegli esseri erano metabolicamente molto simili all’uomo, e i loro grandi occhi a salsicciotto si spostavano velocissimi dall’uno all’altro dei Terrestri, mostrando una grande curiosità e rivelando un probabile schermo visivo stereoscopico.

Gli alieni non avevano un naso vero e proprio, ma solo fessure di narici coperte da una specie di filtro, le loro facce erano poco carnose, e pareva che la pelle aderisse ben tesa alle ossa.

Quando parlavano tra loro, Bernard coglieva una visione di denti rossi e di lingue talmente purpuree da sembrare quasi nere. Dunque differivano dai Terrestri per la pigmentazione e in altri particolari minori, ma l’impalcatura generale era più o meno la stessa, come se la vita intelligente potesse esprimersi nell’universo attraverso un unico sistema. Sempre la stessa mancanza di scelta si disse Bernard con un distacco filosofico che lo lasciò sorpreso, mentre le gambe tremanti continuavano a spingerlo innanzi. L’Universo comunica un’impressione di libera volontà, ma nelle cose che contano maggiormente c’è solo un modo possibile di realizzazione.

Le braccia di quegli esseri lo affascinavano. I doppi gomiti sembravano giunti universali, con possibilità di snodarsi in ogni direzione rendendo quelle creature capaci di fare con simili braccia cose impensate e fantastiche. Quelle braccia pensava Bernard, uniscono tutti i vantaggi di un tentacolo senza ossa e di un arto rigido.

I verdi sembravano in tutto identici ai loro capi azzurri, salvo che erano leggermente più bassi e robusti. Era più che evidente che i verdi erano nati per lavorare, gli azzurri per comandare.

Un terzo azzurro apparve, attraversando diagonalmente la zona dei lavori per raggiungere i colleghi. I tre extraterrestri aspettarono immobili.

Giunti a tre metri, Laurance ordinò l’alt.

«Coraggio» mormorò a Bernard. «Comunicate con loro. Dite loro che vogliamo essere amici.»

Il sociologo respirò a fondo. Era ironicamente conscio dell’attimo che stava per vivere: per la prima volta in tutta la storia conosciuta, un Terrestre si faceva incontro a un non-Terrestre per presentargli i suoi saluti.

Si sentiva intontito. La testa gli girava. Che dire? Siamo amici. Portateci dal vostro capo. Salve, esseri di un altro mondo.

Non c’è niente da fare pensò. Gli antichi clichés erano diventati tali proprio perché erano così maledettamente validi. Che altro si sarebbe potuto dire nel creare il primo contatto con esseri non-Terrestri? Ma Bernard si sentiva ugualmente imbarazzatissimo, in quell’attimo in cui il cliché diventava storia.

Si toccò il petto e indicò il cielo.

«Siamo terrestri» disse, pronunciando ogni sillaba con meticolosa chiarezza. «Veniamo dallo spazio. Vogliamo essere considerati amici.»

Le parole naturalmente, non significavano niente per gli altri. Potevano rappresentare solo suoni incomprensibili. Tuttavia, quella non era una scusa valida per non pronunciare le parole adatte al momento.

Tornò a indicare se stesso, poi il cielo. Poi, battendosi il petto, disse: «Io.» Indicò gli stranieri lentamente, per non spaventarli. «Voi. Io… voi. Io… voi… amici.»

Sorrise, chiedendosi nel farlo, se per caso mettere in mostra i denti non fosse considerato un fiero insulto dagli alieni. Quell’incontro era molto più delicato di quello tra due culture un tempo separate di abitanti dell’antica Terra. Tra un antico lupo di mare inglese e un capo polinesiano esisteva pure un tipo di sangue comune: c’era almeno d’aspettarsi un terreno biologico comune. Qui no. Qui nessun valore accettato poteva dirsi valido.

Bernard aspettò, e dietro di lui altri otto Terrestri aspettarono, condividendo la stessa tensione. Bernard fissava tranquillamente negli occhi sporgenti l’azzurro più vicino. Quegli esseri avevano un vago odore di muffa, non era sgradevole, ma piuttosto intenso. Bernard si domandava che odore potessero avere i Terrestri per l’altra razza.

Con precauzione tese la mano. «Amico» disse.

Seguì un lungo silenzio. Poi, esitando, l’azzurro più vicino sollevò la mano, rotolandola verso l’alto in un movimento stranamente fluido. L’essere si guardava la mano come se non gli appartenesse. Anche Bernard vi gettò una rapida occhiata: aveva sette o otto dita, e il pollice molto ricurvo. Da ogni dito sporgeva un’unghia blu lunga tre centimetri.

L’azzurro allungò il braccio, e per una frazione di secondo il calloso palmo azzurro sfiorò quello di Bernard. Poi, rapidamente, la mano ricadde.

L’extraterrestre mandò un suono. Poteva essere un’esclamazione gutturale di sfida, ma a Bernard suonò circa come «Mmmmiho!» e lui la prese per quel che sembrava. Sorridendo, accennò all’azzurro e ripeté: «Amico. Io… voi. Voi… io. Amico.»

La ripetizione venne, e stavolta il suono fu inconfondibile. «Mmmmmiho!» L’azzurro afferrò la mano tesa di Bernard e la strinse con energia. Bernard sorrise, trionfante e soddisfatto.

Comunque potessero procedere le cose, il primo contatto era stato stabilito.

7

Entro una settimana diventò possibile comunicare, sia pure in modo incerto e sommario.

Gli extraterrestri afferrarono il concetto al volo. Capirono, senza che fosse necessario pregarli, che uno dei due gruppi doveva apprendere la lingua dell’altro, e che più presto si faceva, tanto di guadagnato. Nessuno pensò di discutere su chi di loro dovesse imparare per primo il linguaggio dell’altro. Gli alieni avevano un idioma articolato, con sfumature costituite da variazioni di tono, timbro e intensità. A parte i problemi grammaticali molto complessi, era evidente che i Terrestri si sarebbero slogati le mascelle nel tentativo di riprodurre i brontolii, i sibili, e tutte le strane emissioni di voce del linguaggio alieno. Sul terreno fisiologico era veramente impossibile che i Terrestri imparassero la lingua degli ospiti, toccava perciò agli ospiti imparare il linguaggio dei visitatori.

E gli ospiti se la cavavano benissimo. Havig, come filologo della spedizione, era incaricato del compito, e per lunghe ore, ogni giorno di quella settimana, gli otto Terrestri dovettero fungere da sillabari animati per mimare i verbi umani. Era un lavoro snervante, specialmente con quella temperatura, che si manteneva sui trentacinque gradi per buona parte della giornata, ma Havig non risparmiò nessuno, e meno che mai se stesso.