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«Insegnate i verbi e il resto verrà da sé» continuava a ripetere. «I nomi sono facili… basta indicare un oggetto e dire come si chiama. Sono i verbi che bisogna insegnare prima di tutto. Specialmente i verbi astratti.»

La prima lezione durò quasi sei ore.

I tre azzurri che sembravano a capo della colonia si acquattarono in posizioni che a vederle sembravano incredibilmente scomode, conficcando i talloni nella parte posteriore delle cosce, mentre Havig faceva giostrare i sudatissimi Terrestri, urlando istruzioni a tutto spiano.

«Chinatevi! Chinatevi!» E il linguista si voltava verso gli «azzurri», indicando i poveri Terrestri piegati in due, e spiegava: «Chinarsi.»

«Chinarsi» ripetevano a turno gli alieni.

Pareva impossibile che in quel modo si potesse imparare una lingua, ma gli stranieri avevano una memoria di ferro, e Havig si era dedicato al compito di istruirli come se si trattasse di una sua sacra missione nel cosmo. Quando il sole cominciò ad abbassarsi dietro le colline al di là della colonia, parecchi concetti chiave erano stati stabiliti: essere, costruire, viaggiare. Per lo meno, Havig sperava che lo fossero davvero. Così sembrava, ma era impossibile esserne certi.

Gli extraterrestri sembravano soddisfatti delle loro nuove cognizioni. Si battevano i petti ossuti esclamando: «Io… Norglano. Voi… Terrestre.»

«Io… Terrestre. Noi… Terrestri.»

«Terrestri venire. Cielo. Stella.»

Bernard approvava tra sé. Sebbene fosse assolutamente contrario alle teorie fondamentali di Havig, sulle culture antiche, nonché alle sue sciocche idee Neopuritane sui tempi presenti, doveva ammettere che in quelle poche ore l’allampanato linguista aveva svolto un lavoro encomiabile.

Tuttavia, stava per cadere la sera e anche la temperatura si abbassava rapidamente. Quella doveva essere una zona di grandi sbalzi termali, in cui si passava da ore caldissime a ore di freddo pungente.

«Dite loro che dobbiamo tornare indietro» disse Laurance a Havig. «Cercate di sapere se hanno dei mezzi di trasporto, e se possono riaccompagnarci all’astronave.»

Havig impiegò un buon quarto d’ora per chiarire quei punti, con l’aiuto di smorfie, saltelli e cenni disperati. Gli azzurri se ne stavano placidamente acquattati mentre Havig faceva il mimo e parlava. Ripetevano parole a caso se queste colpivano la loro fantasia. Bernard già si vedeva in cammino per altri venti chilometri nel freddo e nell’oscurità. Ma alla fine, una scintilla di comprensione si accese. Uno degli azzurri si alzò in piedi con un movimento rapido, anatomicamente incomprensibile, e abbaiò alcuni ordini imperiosi a un verdolino in attesa.

Qualche istante dopo tre piccoli veicoli molto simili a grosse culle arrivarono rotolando sul terreno, ciascuno condotto da un «verde». I veicoli erano ovali, rivestiti in un metallo che pareva rame, e poggiavano su tre ruote. L’azzurro che aveva fatto più progressi di tutti in lingua terrestre indicò le macchine e disse: «Voi. Terrestri. Viaggiare.»

Le macchine erano mosse da una specie di generatore turboelettrico, e parevano capaci di una velocità massima di sessanta chilometri all’ora. I «verdi» guidavano impassibili, senza mai dire parola, seguendo semplicemente le istruzioni che Laurance dava loro. Arrivati al torrente, lo guadarono senza esitare, come se i veicoli fossero stati carri armati in miniatura. Il viaggio di ritorno alla VUL-XV durò meno di un’ora, anche calcolando i larghi giri attorno ai boschi impenetrabili per un veicolo. Quando i Terrestri scesero dalle piccole macchine, era ormai notte fonda. Costellazioni luminosissime e sconosciute punteggiavano il cielo con le loro strane configurazioni. E stava sorgendo la luna… una piccola scheggia rossastra, che saliva di traverso nel cielo contro il buio della notte. Saliva rapidamente, a una velocità sbalorditiva per uomini abituati al comportamento più pacato del satellite terrestre.

I «verdi» se ne andarono senza una parola.

I Terrestri erano altrettanto silenziosi, mentre rientravano nella loro astronave. Era stata una giornata lunga e massacrante; Bernard non ricordava di essersi mai sentito tanto stanco. Nessuna responsabilità accademica gli era mai parsa tanto gravosa. Nessun problema personale lo aveva snervato a quel punto. Ma sebbene fossero tutti abbrutiti dallo sforzo compiuto, non potevano impedirsi di provare un profondo, stimolante senso di orgoglio e di soddisfazione. Quel giorno la Terra si era messa in contatto con un’altra razza, e attraverso l’immenso golfo che separava le due specie si era creato un ponte di comunicazione.

Nell’astronave, Martin Bernard si accostò ad Havig, con riluttanza, eppure mosso da un istinto che sembrava addirittura imperioso.

Il Neopuritano non si era nemmeno slacciato la stretta tonaca nera dal rigido colletto inamidato. Si era gettato sulla brandina lungo disteso, e completamente vestito.

Bernard gli si fermò accanto. Havig aveva gli occhi aperti, ma non parve accorgersi del sociologo.

«Havig?»

Lo sguardo di Havig si spostò su Bernard. «Che c’è?»

Bernard esitò, lottando con la tentazione di rimettersi a discutere con il rivale. «Ecco, io… volevo dirvi che avete fatto un lavoro splendido, oggi» disse, buttando fuori le parole. «In passato abbiamo avuto le nostre divergenze, Havig, ma questo non può impedirmi di farvi le mie congratulazioni per il modo come avete condotto la lezione di oggi. So riconoscere un lavoro ben fatto, credetemi.»

Il Neopuritano si sollevò sulla brandina. I suoi severi occhi grigi si piantarono in quelli azzurri e più dolci di Bernard. Con voce ferma e priva di ogni emozione Havig replicò: «Non cerco congratulazioni per il mio lavoro, dottor Bernard. Ciò che posso avere compiuto, l’ho fatto solo per merito del Signore che si è servito di me, perciò non debbo vantare alcun merito personale.»

«Be’… d’accordo, diciamo che Dio ha lavorato attraverso voi» balbettò Bernard meravigliato. «Ma penso ugualmente che abbiate fatto un lavoro ottimo, e…»

«Non merito il vostro plauso, dottor Bernard. Ma mi compiaccio se una maggiore larghezza di vedute vi consente di esprimerlo.» Le parole furono accompagnate da un lievissimo sorriso. «Buonanotte, dottor Bernard.» E Havig tornò a sdraiarsi sulla sua cuccetta.

Bernard batté le palpebre, trasecolato. Era stato così contento di scoprire in sé l’obiettività necessaria per presentare le sue congratulazioni all’altro, che aveva considerato quel gesto un sensibile sacrificio del suo orgoglio. Invece, sebbene non respinto del tutto, quel gesto era stato accolto da Havig con suprema indifferenza. Bernard era irritato. Fece per aggiungere qualcosa.

Dominici glielo impedì gentilmente. «Lasciatelo stare, Bernard. Tutt’e due avete fatto un passo nella direzione buona. Ora non rovinate tutto. Cosa vi aspettavate che facesse? Che vi ringraziasse sorridendo? Se non pensa di meritarle, le vostre lodi…»

«Allora tanto valeva che risparmiassi il fiato» brontolò Bernard.

Voltò le spalle e si preparò per la notte. Havig, a occhi chiusi, sembrava già immerso nel sonno. Stone prendeva appunti in un taccuino, e Dominici si stava massaggiando sotto la vibrodoccia.

Bernard si spogliò e raggiunse il biofisico sotto il tonificante getto molecolare: una corrente di ioni lo liberò ben presto dalla spossatezza e dal sudore della giornata.

Dominici continuò: «Non prendetevela se non s’è commosso per le vostre congratulazioni. Voi vi siete comportato in modo egregio con lui. E lui, per la verità, ha svolto effettivamente un lavoro encomiabile.»

«Sì, bisogna ammetterlo» dichiarò Bernard. «Però, come uomo è un vero limone. Non c’era bisogno che mi rispondesse in quel modo. Se…»