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«Ma lui è sinceramente convinto d’essere stato solo uno strumento nelle mani di Dio» gli spiegò Dominici. «Risparmiatevi il fiato, Bernard, e non tentate di fargli cambiare idea. Siate lieto che Havig abbia dimostrato di conoscere così bene il fatto suo, e prendete le cose come vengono.»

Bernard scivolò nella sua cuccetta e tentò di rilassare i nervi. Cercò di vedere le cose dal punto di vista di Havig, chiedendosi che specie d’uomo potesse essere uno che rinunciava a tutte le gioie della vita, a tutti i piaceri delle conquiste, passando cupamente le sue giornate avvolto in lugubri vestimenti neri. Senza dubbio Havig quel giorno aveva compiuto un lavoro superbo, di primissima qualità, ma che male c’era ad accettare delle congratulazioni per il risultato conseguito? Forse si disse Bernard, Havig è uno di quei tipi che non possono sentirsi lodare senza sentirsi tremendamente imbarazzati, ecco perché si rifugia dietro la comoda maschera altruistica che il suo credo gli fornisce.

Bernard chiuse gli occhi, premendosi le dita sulle palpebre indolenzite. Pensò per un attimo alla sua vita comoda, la vita che aveva lasciato dietro di sé, così diversa da quella che Havig concepiva. Senza dubbio Havig avrebbe considerato scandaloso, o addirittura blasfemo, trascorrere una serata ascoltando musica, leggendo poesia, sorseggiando un buon cognac, quando quelle ore avrebbe dovuto trascorrerle in preghiera, o in meditazione, o in attività benefiche.

Eppure, nonostante tutta la sua rigida disciplina, Havig non era più valente nel suo campo di quanto lo fosse Bernard nel proprio. E Bernard, nonostante le concessioni che faceva a se stesso, sentiva di non aver niente da invidiare, come sociologo, ad Havig come linguista. Io sono un uomo di gusti raffinati e amante della bella vita, magari anche un po’ egoista, però so il fatto mio. E anche Havig sa il fatto suo, salvo quando mescola la sua propaganda religiosa con questioni culturali più generali. Per formare una civiltà, occorreva tutta una gamma di personalità diverse.

Bernard continuò a pensare ad Havig, cercando di scoprire quale molla lo muovesse, di stabilire se si trattasse di un fanatico o se veramente in lui ci fosse qualcosa di particolare.

Poi si addormentò.

Il mattino dopo si strappò dal sonno a fatica. Nakamura, in piedi accanto alla sua cuccetta, lo scuoteva energicamente.

«È tempo di alzarsi, dottore.» Il sociologo fissò intontito la faccia sorridente dell’astronauta. «Il Comandante Laurance dice che avete dormito abbastanza» concluse Nakamura.

Il Comandante Laurance non aveva torto, dovette riconoscere Bernard; un’occhiata all’orologio gli fece scoprire d’aver dormito più di undici ore. Eppure sentiva ancora la testa pesante, e brontolava tra sé mentre si fregava gli occhi per destarsi del tutto.

Il sole era sorto da un’ora. Su quel pianeta, il giorno corrispondeva a ventotto ore terrestri e venti minuti. Ancora intontito, Bernard si trascinò a prua per fare colazione. Laurance aveva già fatto trasportare a terra due scivoli. Terminata la colazione, il Comandante ordinò: «Ci divideremo in quest’ordine. Clive, tu piloterai il numero Uno, Havig e Stone verranno con te, e anch’io. Tu, Hernandez, prendi l’altro. Porterai Bernard, Dominici, Peterszoon e Nakamura.»

La corsa in scivolo a motore richiese poco più di un’ora. Quando i Terrestri raggiunsero l’accampamento norglano, la scena era più o meno quella del giorno innanzi: i costruttori erano al lavoro, con tutte le loro incredibili energie impegnate. I tre «azzurri» che avevano ricevuto la lezione di lingua il giorno innanzi, si fecero incontro ai Terrestri per accoglierli, offrendo a mo’ di saluto un campionario di vocaboli.

«Io… voi. Viaggiare. Venire. Qui. Noi, Norglani. Voi, Terrestri.»

Bernard sorrise. Per il momento, la conversazione aveva un andazzo abbastanza comico, ma lui sapeva benissimo che perfino il raggiungimento di quei balbettii sconnessi rappresentava una vittoria sbalorditiva. E si era appena all’inizio.

Dopo tre ore di lezione, un paio di «verdi» si avvicinarono esitando con dei vassoi di cibi: erano piatti levigati, rozzamente dipinti di giallo, sui quali erano disposte alcune fette di carne rosea, dal profumo dolciastro, e delle fiasche di una sorta di terraglia piene di un vino nero dall’odore pungente. Havig guardò dubbioso Laurance, che consigliò: «Rifiutate, nel modo più gentile possibile. Non possiamo toccare niente se prima Dominici non avrà avuto modo di eseguire alcune analisi.»

Il cibo venne respinto cortesemente. I Terrestri tirarono fuori le loro provviste, e Havig spiegò come poteva che sarebbe stato imprudente per i Terrestri mangiare cibi norglani, che potevano essere non adatti. Gli ospiti parvero comprendere.

Durante quel giorno, e il seguente, e l’altro ancora, Havig si adoperò senza risparmiarsi, mentre gli altri Terrestri sedevano in disparte, in attesa di essere chiamati per mimare la figurazione di un verbo. Bernard trovava quelle lezioni tremendamente snervanti.

Ma i progressi erano strabilianti. Il quinto giorno, i Norglani cominciavano a mettere insieme frasi sensate attingendo da un elenco di quasi cinquecento parole. Cinque parole su sei riuscivano a infilarle giuste fin dal primo tentativo. E, naturalmente, più si allargavano le loro conoscenze linguistiche, più era facile insegnare loro nuovi vocaboli.

Verso il settimo giorno, si era raggiunta una comprensione reciproca sufficiente a intavolare negoziati seri. Il primo ordine del giorno fu di erigere un luogo dove riunirsi. Starsene seduti per terra all’aperto, mentre attorno gli operai lavoravano, non era l’ideale per discutere con calma. Su consiglio di Havig, i Norglani innalzarono una tenda nel mezzo dell’area da colonizzare: lì si sarebbero tenute le conversazioni.

Appena la tenda fu eretta, i Terrestri sorrisero di sollievo. Una settimana su quel pianeta, all’aria aperta, li aveva bruciacchiati e mezzo accecati dal sole. Ai Norglani la cosa non dava fastidio. Sudavano, ma la loro pigmentazione li proteggeva evidentemente dai danni della lunga esposizione ai raggi cocenti. Bernard, invece, sembrava un’aragosta. Dominici aveva ormai una bella abbronzatura, ma quasi tutti gli altri Terrestri stentavano a guarire dalle scottature.

Il nono giorno, i negoziati ebbero inizio. Stone, come era stato deciso, avrebbe tenuto le conferenze, e Havig avrebbe fatto da interprete. Bernard avrebbe fatto le osservazioni culturali, e Dominici le analisi, perché i Terrestri potessero arrivare a capire meglio i Norglani. Il Tecnarca aveva scelto i suoi uomini con cura.

Sotto la tenda, era stato sistemato un tavolo di legno grezzo. Da una parte, i Norglani sedevano acquattati sui talloni. Evidentemente non avevano bisogno di sedie. I Terrestri, in mancanza di sedili, adottarono una posizione alla turca.

Havig esordì. «Questo terrestre si chiama Stone.»

Il più grosso dei tre Norglani si consultò brevemente con i suoi compagni, poi rispose: «Io sono Zagidh. Tu sei Stone.»

Poi seguì un lungo conciliabolo tra Havig e il norglano, per stabilire se quelli erano nomi o titoli onorifici. I Terrestri friggevano d’impazienza. Se andiamo avanti di questo passo pensò Bernard, come faremo a raggiungere qualcosa di conclusivo? Ma questi sono dei pignoli, che il diavolo se li porti.

Finalmente Havig riuscì a soddisfare l’amore di precisione del norglano, e Stone si lanciò lungo un tortuoso sentiero verbale, con molto aiuto e correzioni da parte di Havig. Dopo due ore il conferenziere grondava sudore, però era riuscito a stabilire alcuni punti essenziali:

La Terra era il nucleo di un impero coloniale.

Il Pianeta Norglano, ovunque si trovasse, era a sua volta centro di un’espansione coloniale. Un contatto tra Terrestri e Norglani era dunque inevitabile. E infine, era necessario, seduta stante, stabilire quale parte della galassia dovesse essere riservata ai Norglani e quale ai Terrestri, per la reciproca espansione coloniale.