Il biologo si accigliò. «Be’… prima di tutto, è evidente che sono mammiferi.»
«Naturalmente. E quanto alla loro evoluzione?»
«Hanno avuto origine da qualche essere del tipo dei primati, sarei pronto a scommetterlo. Naturalmente ci sono enormi differenze, ma questo è logico tenendo conto che c’è di mezzo una distanza di dodici o quindicimila anni-luce. Le otto dita, i doppi gomiti… Ma a parte questo, almeno a giudicare dall’esterno, direi che sono molto simili a noi.»
«Una razza più giovane della nostra, secondo voi?»
Lo sguardo di Dominici esprimeva l’incertezza. «Più giovane? No, non direi. Forse più vecchia.»
«Che cosa ve lo fa pensare?»
Dominici si strinse nelle spalle. «Intuizione, diciamo così. Sembrano più definiti nei loro atteggiamenti. Più stratificati, direi. La differenza non può essere sensibilissima… due o tremila anni, su per giù, ma ho l’impressione netta che siano civilizzati da più tempo.»
«Sono d’accordo con voi» disse Havig dal suo angolino. «Da quel poco che ho potuto afferrare del loro complicato linguaggio, direi che è molto evoluto… proprio il tipo di linguaggio che una razza potrebbe avere raggiunto dopo un paio di migliaia di anni. Ma perché, Bernard? Come mai queste domande improvvise? Che cosa avete in mente?»
Bernard tentennò la testa.
«Stavo mettendo assieme alcune cose da dire al Tecnarca, al nostro arrivo» disse soltanto, e non accennò a volere aggiungere ulteriori spiegazioni.
Il gong suonò dando il segnale di conversione. Poco dopo, Nakamura si affacciò nella cabina per avvertire i passeggeri che la nave seguiva regolarmente la sua rotta, e che tra poco sarebbe stato servito il pranzo.
Mangiarono tranquillamente. Non c’era ragione di mostrarsi euforici dopo una simile avventura tra le stelle. Tutti sapevano molto bene che stavano facendo ritorno alla Terra dopo una missione che era terminata con un’inaspettata diminuzione di spazio per l’Uomo nell’Universo. Le notizie di cui erano latori non sarebbero certo suonate gradite ai mondi terrestri, né a quell’uomo inflessibile, duro, altero, che li aveva costretti a quel viaggio. Le verità amare difficilmente sono bene accolte.
Havig rimase nel saloncino per dare una mano a Nakamura che doveva rimettere in ordine dopo il pasto. Bernard ritornò in cabina con Stone e Dominici. Erano tornati tutti di umore cattivo. Ogni minuto che passava, ormai, li portava più vicini alla Terra, e all’incontro col Tecnarca.
Stone sedeva quieto sulla sua cuccetta, e si teneva il volto tra le mani. Bernard alzò gli occhi all’improvviso e si accorse che il paffuto diplomatico stava piangendo.
Andò da lui.
«Stone, non fate così!»
«Lasciatemi in pace» fu la risposta soffocata.
«Ma via, scuotetevi…»
«Andatevene.»
«Maledizione» disse Bernard, «ma perché piangete? Si può sapere? Possibile che il fatto che i Terrestri non siano più quei padreterni che si credevano vi abbia sconvolto a questo modo? O piuttosto siete fuori di voi pensando che forse perderete il posto che avevate all’Arconato?»
Stone rialzò la testa, pallido, con gli occhi rossi, e l’espressione sorpresa di un uomo che vede svelati i suoi segreti più riposti. «Come osate dire…»
«È la verità, no?»
«Cosa vorreste…»
«Confessatelo» proruppe Bernard in tono volutamente aspro. «Affrontate la verità. È un’abitudine che almeno noialtri dovremmo cominciare a prendere.»
Il diplomatico assunse un’espressione come se l’avessero frustato. Si rannicchiò su se stesso, e dopo un attimo di silenzio disse con voce bassa e distante: «Va bene, è la verità. È inutile che cerchi di nasconderlo, ormai. Per venticinque anni hanno continuato ad addestrarmi per l’Arconato, e adesso tutto crolla. La mia carriera è finita. Volete che sia allegro dopo la piega che hanno preso gli avvenimenti? Credete che sceglierebbero mai come Arconte l’ambasciatore che è tornato con la notizia che l’Uomo… che l’Uomo…»
Non poté continuare.
I singhiozzi ricominciarono. Bernard si sentiva a disagio nell’osservare quelle spalle massicce scosse da un tremito incontrollabile.
Tanto vale lasciarlo piangere pensò. Forse la sua carriera è finita, o forse no, ma questo sfogo gli farà bene ugualmente. Dio sa quanto ne avremmo bisogno, tutti quanti.
Ritornò alla sua cuccetta. Dopo un po’ vide Stone che si alzava, si lavava la faccia, si asciugava gli occhi e si faceva una puntura di sedativo nel braccio. Il diplomatico si sdraiò di nuovo, e poco dopo si addormentò. Bernard rimase sveglio, a fissare il grigiore dello schermo televisivo, a osservare il movimento implacabile delle lancette dell’orologio. Anche lui era d’umore depresso, eppure non così cupo come ci sarebbe stato da aspettarsi. Quel viaggio, Bernard lo sapeva, era stata un’esperienza preziosa per lui, come lo sarebbe stato per chiunque. La Terra aveva appreso alcune cose sul proprio conto che aveva sempre avuto un bisogno disperato di apprendere, e lo stesso si poteva dire di Martin Bernard. Riandando con la memoria all’immediato passato, si sorprese di alcune sue azioni. L’improvviso senso di simpatia e di comprensione per Havig, per esempio.
Quel viaggio gli aveva allargato le idee, aveva ampliato la sua conoscenza di se stesso e degli altri. Ora poteva guardarsi indietro e osservare il Martin Bernard di un tempo in una nuova, fredda e distaccata prospettiva.
E ciò che vedeva non lo lasciava molto soddisfatto.
Vedeva un individuo egocentrico, quasi odiosamente egoista, con una punta di crudeltà ben camuffata da modi amabili. Il suo articolo polemico contro Havig, per esempio, non era stato un’espressione di dissenso culturale, quanto un attacco contro una filosofia che chiamava in causa le sue concezioni edonistiche. E anche la relazione con sua moglie gli appariva con mortificante chiarezza. Non era affatto vero che lui non fosse nato per essere un buon marito. Semplicemente, non aveva fatto niente per diventarlo. Lei non era invadente, era solo una donna che desiderava dividere la vita del marito, mentre ne era stata completamente tagliata fuori.
Bernard guardava fisso dinanzi a sé. Quella segregazione obbligatoria, ben diversa dall’influenza cullante del suo nido così intimo di Londra, l’aveva costretto a un esame di coscienza, indotto a dare un’occhiata oggettiva al suo vero io racchiuso finora in un guscio di auto-compiacimento.
Un identico risveglio altrettanto brusco, avrebbe avuto la Terra, tra poco. Bernard si chiese se la gente in generale avrebbe imparato qualcosa dall’urto di quelle verità buttate in faccia, o se invece non avrebbe immediatamente innalzato meccanismi di difesa per impedire all’amara realtà di farsi strada nelle menti e nei cuori. Bernard si accigliò. Non se la sentiva di rispondere a quella domanda.
Intanto, il tempo scorreva veloce. Solo dodici ore, poi ci sarebbe stata di nuovo la conversione. Le lancette si muovevano, lente ma inesorabili.
Dieci ore.
Otto.
Sei.
Quattro.
Due.
Gli ultimi minuti parvero a tutti infiniti. La faccia di Bernard era una rigida maschera, gli occhi gli dolevano a forza di fissare l’orologio. Da ore, nessuno aveva detto una parola.
I colpi di gong echeggiarono, finalmente, e la loro risonanza riempì la cabina, solenne come l’annuncio del Giudizio Universale. L’attimo della conversione si compì. Lo schermo visivo s’illuminò mentre la VUL-XV usciva dal vuoto misterioso e rompeva la barriera per ritornare nell’Universo conosciuto.
Da prua, in tono lento, misurato, arrivò il messaggio di Laurance: «In questo momento stiamo attraversando l’orbita di Nettuno, diretti verso l’interno del sistema solare. Ho comunicato via radio con la Terra e loro hanno ricevuto il mio messaggio. Sanno che stiamo per rientrare.»