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Tese la mano. Dopo un attimo di esitazione, il gigantesco Neopuritano la prese, sia pure con riluttanza. La stretta fu breve, e le due mani ricaddero subito inerti. Bernard e Havig avevano battagliato senza esclusione di colpi su una questione, per la verità, piuttosto secondaria. Era una di quelle polemiche in cui spesso gli specialisti si imbarcano quando le loro diverse specialità si scontrano su un punto di comune interesse. Però non era certo di buon auspicio che proprio lui e Havig facessero parte della stessa spedizione; la barriera che esisteva tra le loro convinzioni personali era troppo grande per permettere una possibilità di vera collaborazione, e questo impensieriva Bernard.

«Bene» osservò innervosito Roy Stone «ormai la partenza può avvenire da un minuto all’altro.»

«Il Tecnarca ha detto che avremmo avuto tempo come minimo fino a stasera» disse Bernard.

«Già. Ma ormai siamo tutti riuniti. Anche l’astronave e l’equipaggio sono pronti. Perciò, non c’è ragione di rimandare oltre la partenza.»

«Il Tecnarca non ama perdere tempo» brontolò cupamente Havig.

«E infatti non c’è tempo da perdere» replicò Stone. «Quanto prima riusciremo a trattare con quegli esseri sconosciuti, tanto prima saremo riusciti a evitare una guerra tra le nostre civiltà.»

«La guerra è inevitabile, Stone» obiettò Dominici con ostinazione. «Non occorre essere un sociologo per capirlo. Due culture sono entrate in collisione. Non facciamo che sprecare tempo e fiato, andando a sbattere fin là per impedire l’inevitabile.»

«Se la pensate così» disse Bernard «perché mai, allora, avete accettato di partecipare alla spedizione?»

«Perché il Tecnarca mi ha chiesto di partecipare» rispose semplicemente Dominici. «Non c’è altro motivo, ma questo basta e avanza. Comunque, non ho fiducia nel successo di questa missione.»

La porta si dissolse all’improvviso. Il Tecnarca McKenzie entrò, imponente e massiccio nei suoi abiti da parata. I Tecnarchi, oltre che per le loro qualità mentali, erano scelti anche in base alla figura e al portamento.

«Avete già pensato a presentarvi?» chiese McKenzie.

«Sì, Eccellenza» disse Stone.

McKenzie sorrise. «Tra quattro ore partirete dall’Australia Centrale. Ora prenderemo il transmat, nella stanza accanto. Il Comandante Laurance e i suoi uomini sono già sul campo, per un ultimo controllo dell’astronave.» Gli occhi del Tecnarca andarono con espressione significativa da Bernard ad Havig, poi ancora a Bernard. «Ho scelto voi quattro per le vostre capacità, naturalmente. So che alcuni di voi hanno divergenze di vedute, in campo professionale. Dimenticatele. Siamo intesi?»

Bernard assentì. Havig fece un cenno scontroso.

«Bene» tagliò corto il Tecnarca. «Ho nominato il dottor Bernard capo della spedizione. Questo significa che le decisioni finali, se le trattative dovessero arrivare a un punto morto, spetteranno a lui. Se qualcuno di voi non è d’accordo, lo dica subito.»

Il Tecnarca fissò Havig dritto negli occhi. Nessuno obiettò.

McKenzie continuò: «Non occorre che vi raccomandi di collaborare col Comandante Laurance e col suo equipaggio. Sono persone ottime, ma sono appena rientrati da un viaggio snervante, e stanno per intraprenderne un altro. Non mettete alla prova i loro nervi. Se qualcuno di loro dovesse sbagliare a premere un tasto, potrebbe essere la fine per tutti.»

Il Tecnarca tacque, come se si aspettasse qualche domanda conclusiva. Non ce ne furono. Allora, voltandosi, fece strada verso la cella transmat. Stone, Havig e Dominici lo seguirono, con Bernard alla retroguardia.

Formiamo un gruppo stranamente assortito per essere una spedizione in viaggio verso le stelle pensò Bernard. Ma il tecnarca sa di certo quello che fa. Almeno, spero che lo sappia.

4

Una cosa, il genere umano aveva disimparato a fare, nei pacifici anni di espansione sotto l’Arconato: non sapeva più aspettare. Il transmat consentiva trasporti e comunicazioni istantanei: da qualsiasi punto della sfera di dominio terrestre, ed entro un raggio di quattrocento anni-luce, ogni spostamento richiedeva soltanto una frazione di secondo. Comodità del genere non contribuiscono certo a formare una società di uomini pazienti. Di tutti i figli della Terra, solo pochissimi erano ancora capaci di aspettare; tra questi, sicuramente i piloti spaziali che guidavano le solitarie astronavi nel buio dei vuoti interstellari, per andare a installare i generatori dei campi transmat che, successivamente, avrebbero permesso a tutti gli esseri umani di raggiungere istantaneamente la medesima destinazione.

Qualcuno doveva pur compiere per la prima volta quei tragitti impiegando il tempo richiesto dalla velocità comunque limitata delle astronavi. Ed ecco perché i piloti spaziali sapevano come colmare le lunghe ore di attesa: lasciavano che il tempo scorresse ritmato dagli infiniti giri delle lancette dell’orologio. Non così gli altri, che durante quelle ore erano addirittura rosi dall’impazienza.

La VUL-XV aveva lasciato la Terra a un’accelerazione di tre-g, scagliando dietro di sé un getto ardente di nuclei fino ad accumulare una velocità pari a tre quarti di quella della luce. La propulsione normale venne staccata, e l’astronave proseguì per inerzia a una velocità abbastanza rapida da farle descrivere quasi cinque volte l’orbita terrestre in un batter d’occhio. Intanto, i suoi quattro passeggeri non sapevano come frenare la propria impazienza.

Bernard fissava le pagine del suo libro senza poterne cogliere il significato. Havig passeggiava su e giù. Dominici stringeva i denti e corrugava la fronte al punto che le sopracciglia si univano. Stone stava incollato all’oblò, scrutando la gelida luminosità degli astri come se aspettasse da loro la risposta a qualche muto interrogativo.

I quattro uomini erano alloggiati tutti insieme nello scompartimento posteriore della snella astronave. In quello anteriore stavano Laurance e gli altri quattro ufficiali. Terminata l’accelerazione, Bernard si portò a prua per guardarli lavorare. Era come osservare i sacerdoti di qualche misterioso rito. Laurance stava al centro del pannello di controllo come un albero nella tempesta, mentre attorno a lui gli altri si adoperavano in un vero parossismo di attività. Nakamura, gli occhi incollati all’oculare di uno strumento per la navigazione tra gli astri, trasmetteva numeri a Clive. Clive li integrava e li passava a Hernandez, che li inseriva in un calcolatore. Peterszoon correlava i dati. Laurance li coordinava. Ciascuno aveva la sua incombenza, ciascuno la eseguiva alla perfezione. Sbalordito dalla loro fredda efficienza, Bernard se ne venne via in preda al più vivo stupore: come succede ai profani.

E naturalmente, pensava, loro trovano altrettanto misterioso che si possa scrivere un sonetto, o formulare dei teoremi sociometrici. La complessità è solo una questione di punti di vista. Buona, questa! È filosofia relativistica…

Il tempo si trascinava penosamente. Qualche ora dopo, quando i quattro passeggeri stavano per farsi venire una crisi di nervi, la porta del loro scompartimento si aprì, ed entrò Clive.

Era piccoletto e minuto, con una faccia giovanile e maliziosa, e i capelli ricciuti precocemente imbiancati. Sorrise e disse: «Stiamo passando attraverso l’orbita di Plutone. Il Comandante Laurance mi incarica di avvertirvi che da un istante all’altro eseguiremo la conversione massa-tempo.»

«Ci avvertirete?» chiese Dominici. «Oppure accadrà così, all’improvviso?»

«Ve ne accorgerete. Prima di tutto suoneremo il gong, e poi non potrete fare a meno di avvertirla.»

«Grazie al cielo siamo fuori del sistema solare» disse con enfasi Bernard. «Credevo che la prima parte del viaggio durasse in eterno. Clive rise.» Ma vi rendete conto che abbiamo coperto più di cinque miliardi di chilometri in meno di un giorno?